Paolo Rossi è vivo

A un anno dalla morte di Pablito, il ricordo di chi ha vissuto la sua intera stagione di uomo, calciatore e leggenda
Paolo Rossi è vivo
Italo Cucci
5 min

Ho rivisto Paolino in tivù, l’altra sera, in una storia bellissima perché me lo ha lasciato vivo. Semplicemente con il suo volto sereno, le sue parole misurate e quell’album di famiglia che ho riconosciuto fin dalle immagini in bianco e nero perché con lui ho vissuto la sua intera stagione di uomo e di calciatore. Un’amica e collega del Guerin Sportivo, Serena Zambon, vicentina, mi segnalò l’esistenza di un ragazzo che sembrava nato col pallone, giocava a Vicenza e lustrava gli occhi a Giussy Farina - il presidente del Lanerossi - che faticava a credere di avere uno così in squadra, si sarebbe accontentato di molto meno e in fondo il giovanotto non faceva niente per rivelarsi: giocava soltanto. Come un dio. Poi arrivò a curarsene Gibì Fabbri, un onest’uomo appassionato di calcio che non pretendeva di passare alla storia, non esibiva numeri circensi, parlava poco e meglio se ci si sedeva a un tavolo per una cena come se fossimo alla Ca’ San Pir, a San Pietro in Casale. Fu lui a gestire come si doveva il talento di Paolino. Poi mi disse di andarlo a vedere. Lo vidi, mi entusiasmai (come più tardi per Baggio).

Fu così che l’adottammo, al Guerino, senza preoccuparci della sua apparente fragilità, della sua aria un po’ mesta che esponeva con sorrisi che potevano anche contenere un punto di tristezza. Ebbe subito una copertina all’altezza, perché senza pensarci si muoveva come un attore sul set: in maglia biancorossa quando la Une - come dicevano quelli di France Football - era praticamente riservata ai colori della Juve, dell’Inter, del Milan e guarda caso stavamo studiando altre vie, altre piazze per trovare consenso nella provincia che ho sempre amato. Quando in quel documentario ho rivisto un’altra delle copertine dedicate a Paolino era praticamente successo tutto, i media strillavano i loro malevoli dubbi: ma era nato il calciatore, si era rivelato il talento, per noi era già campione e l’avevamo consegnato fiduciosi a Bearzot, «Enzo, fidati, se non ti fidi chiedi a Gibì...»; Enzo si fidò, lo portò in Argentina, stavamo seduti vicino, all’Indu Club, il Vecio muoveva fra le labbra la pipa come per esprimere ammirazione (contenuta, naturalmente: l’ho visto emozionato un paio di volte, soprattutto incazzato e allora la pipa la mordeva); da bordocampo mi diceva a gesti quanto gli piacesse quel ragazzo che era entrato anche negli occhi di Brera che lo diceva brevilineo.

Poi finì tutto, un paio di titoli di giornale, uno scandalo di verdurai malati di scommesse, il calcioscommesse, le camionette dei carruba in campo e a forza di tirar bestemmie ecco anche il nome di Paolo Rossi, generalità come si deve, mancava solo la foto di fronte e di profilo. Ma lo sapevo innocente, quelli che lo conoscevano anche meglio di me erano pronti a morire per lui. Pochi ma buoni. E quel morire mi suggerì la copertina che ho rivisto l’altra sera: Paolino orizzontale sull’erba e un titolo suggeritomi da Francesco De Gregori: “HANNO AMMAZZATO PABLO, PABLO È VIVO”. Non mancarono gli idioti - a quel tempo -, molti non capirono soprattutto quando cominciai a scrivere che Pablo (guarda un po’...) non solo era vivo ma sarebbe diventato un grande del Mundial. Una volta lo stesso Bearzot sí disse sorpreso delle mie certezze, per lui che non faceva il giornalista e non viveva di chiacchiere era un attimo più difficile saltare lo steccato dei dubbi; ma poi presero a volersi bene, lui e Paolino, come padre e figlio, e tutto andò a posto.

A Barcellona io potevo entrare al ritiro azzurro, parlare, scherzare con gli ammutinati. Senza scrivere. Finché un giorno mi avvicinò un collega della tivù ungherese, uno che sapeva della mia passione per Paolino, e mi chiese di ottenere da Bearzot l’autorizzazione a intervistare Paolo Rossi. «Io non sono italiano...». Bearzot parlò con Vantaggiato, il suo assistente, che fece un giro federale e alla fine non poté negare che l’ungherese aveva trovato la chiave. Ciak, si gira. Chiesi di poter stare accanto al collega. Paolino fece un’intervista bellissima e il suo sorriso rivelò l’attesa guarigione dopo la tempesta di cattiverie, di insulti, fin d’odio dei giornalisti convinti di averlo ucciso. Uscii dal ritiro, mi misi a scrivere: «Ho guardato Paolino negli occhi, sta bene, è pronto a vincere...». Argentina, Brasile... Giorgio Lago allora gli cambiò nome: Pablito. Il resto lo sapete: cosí diventammo campioni del mondo.


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