Mino Raiola, il diavolo custode

Mino Raiola, il diavolo custode© ANSA
Ivan Zazzaroni
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Lo conoscevo dal ’92, dal suo primo affare italiano, Bryan Roy al Foggia. Eravamo diventati quasi amici. Tre anni fa, marzo 2019, mi mandò affanculo per colpa di un titolo sbagliato: avevamo preso per buono un intervento su un suo profilo fake, maledetto facebook. Conservo ancora l’sms: «Ciao Ivan, solo per informarti che denuncerò il tuo giornale e il giornalista… basso livello, non è da te, abbraccio Mino». Non lo fece. Al telefono fu sgradevolissimo: sapeva essere di un’aggressività ineguagliabile, ce ne dicemmo di tutti i colori.
Tempo dopo si era già dimenticato tutto e pochi mesi fa, premettendo che si fidava solo di me, regalò al Corriere dello Sport l’intervista esclusiva a Donnarumma sul trasferimento al Psg. Queste le sue parole: «Gigio non ha lasciato il Milan per altro motivo che per crescere».
Raiola sapeva essere angelo e diavolo, più spesso diabolico che angelico. Lo chiamavo Houdini: così come spariva e per mesi non si faceva trovare, all’improvviso ricompariva. «Come va?».
È stato lui a rendere internazionalmente (im)popolare la figura del procuratore, a farle del bene ma anche del male. Era diventato il parametro, il simbolo, il manifesto di una professione di base antipatica, quella dell’intermediario; il cognome aveva sostituito il ruolo: procuratore uguale Raiola. E non viceversa.
Mino non aveva paura di nessuno, era un mix di determinazione e arroganza, andava spesso allo scontro, in particolare con i giornalisti, ed era diventato lo specialista dei trasferimenti più scomodi. Fra tutti, quelli di Ibra dal Barcellona di Messi al Milan dopo una sola stagione (litigò con Guardiola) e di Donnarumma al Psg a parametro zero. Da oltre un anno stava lavorando alla cessione di Haaland per il quale chiedeva - si dice - 50 milioni di commissioni da dividere col padre dell’attaccante.
Aveva stretto alleanze-amicizie importanti e strategiche: Zeman, Nedved, Moggi, Ibra, Galliani. Aveva soprattutto capito che Fifa e Uefa se ne fregavano e quindi, in barba ai regolamenti, era di fatto socio delle famiglie dei campioni. Intelligente e scaltro, prima e più di ogni altro, si era reso conto che i governing bodies pensavano ai loro interessi e a nient’altro.
Diciotto anni fa, a Udine per il premio Eurochampion organizzato a settembre dalla famiglia Pozzo (presente anche il giovanissimo Messi accompagnato dal padre), cenammo insieme a Ibrahimovic, che era stato appena acquistato dalla Juve, e all’avvocato che curava la parte legale di Raiola, una signora brasiliana. A un certo punto Mino provocò Zlatan - per lui era “Slatan” - dicendogli che se avesse segnato di più sarebbe diventato il più grande centravanti al mondo, la risposta di Ibra fu questa: «Se avessi fatto più gol non avrei avuto bisogno di te». In realtà con Mino arrivarono per Ibra i gol, i milioni e l’eterna libertà di pensare e dire.
Raiola ha sempre fatto più del massimo per i suoi assistiti e per se stesso. Anche per questo i giocatori lo amavano e non l’avrebbero mai lasciato: aveva una sensibilità non comune nell’individuare l’affare e le fragilità di presidenti e dirigenti. Parlava molte lingue, «la peggiore l’italiano», confessò. Lo chiamavano “il pizzaiolo” perché la sua famiglia aveva dei locali ad Haarlem. La cosa lo faceva incazzare e più di una volta aveva chiarito, inascoltato, di non aver mai steso una pizza in vita sua.
Nel 2010, per GQ Italia, il direttore Michele Lupi mi chiese di intervistarlo: andai a Montecarlo, pranzammo, conobbi Vincenzo, cugino e primo collaboratore, e mi fece incontrare la moglie, conosciuta a Foggia, e i figli appena rientrati da scuola. Abitavano in un bell’appartamento in avenue d’Angleterre. Ricordo che prima di salutarmi disse: «Memorizza bene questa casa perché l’anno prossimo sarà diversa, mia moglie fa ridipingere in continuazione le pareti. Mi costa un sacco di soldi». Con quello che Mino portava a casa ogni estate avrebbe potuto farle rifare ogni giorno.
Non voglio neppure immaginare come siano stati i suoi ultimi sei mesi, la sofferenza, il dolore fisico. So che ha lottato come un leone contro un avversario che fatica a scendere a patti.
Nelle ultime drammatiche ore, sempre grazie a una fake news, Mino è riuscito a imitare 007 in versione personale, “Si muore solo due volte”. Avrebbe sofferto anche di più se avesse immaginato di essere rimpianto. Non dico da suoi calciatori, ma dai tanti avversari, anche i più odiosi. D’altra parte, un nemico così dove lo trovi?


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