Il calcio italiano? Un malato grave

L’impietoso report Figc
Il calcio italiano? Un malato grave© ANSA
Alessandro F. Giudice
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Il calcio italiano è un malato grave, i valori delle analisi sono ancora più sballati di quanto non dica lo stato di salute percepito da tifosi e osservatori. Lo dicono i numeri impietosi del Report Calcio 2022, pubblicato ieri (come ogni anno) dalla Figc e realizzato con Pwc e Arel. Nella stagione 20/21 il calcio professionistico ha realizzato perdite nette per 1,3 miliardi, in peggioramento dal rosso di 878 milioni del 19/20. La pandemia ha colpito ma sarebbe miope attribuirle la “colpa” di un malessere strutturale che richiede interventi risoluti. Nei dodici anni precedenti (2007-2019) l’industria del pallone aveva già prodotto perdite aggregate per 4,1 miliardi (1 milione al giorno). 

La situazione era già insostenibile per lo squilibrio sistematico tra ricavi (in moderato aumento prima della pandemia) e costi in crescita sostenuta, soprattutto quelli legati alla gestione degli organici: stipendi e ammortamenti. La chiusura degli stadi ha dissolto 300 milioni di incassi dal botteghino ma la falla più vistosa è il dimezzamento delle plusvalenze: da 817 milioni nel 19/20 a 404 nel 20/21. 
Su questo dato occorre riflettere. Gli oltre 6 miliardi di perdita aggregata in 14 anni: mezzo sono arrivati nonostante 7,5 miliardi complessivi di plusvalenze, senza le quali il calcio sarebbe caduto in default. Ma nelle plusvalenze risiede la sostanza del problema: parte di esse si ottiene vendendo calciatori all’estero, parte sommando le plusvalenze generate da scambi sul mercato interno. Le prime equivalgono alle esportazioni, in un sistema economico; le seconde comportano uno spostamento di perdite al futuro. Bisogna infatti comprendere che, quando una società realizza una plusvalenza cedendo un calciatore, la società acquirente iscrive il valore di acquisto del cartellino all’attivo del bilancio. Un valore che ammortizzerà negli anni successivi, durante la vita utile del contratto. Il contraltare degli acquisti sul mercato sono gli ammortamenti: costi pieni che hanno zavorrato i conti economici aggregati per 10 miliardi complessivi nel periodo 2007-21

La misura dell’irrazionalità di questo sistema è spiegata da un dato: il costo degli organici (stipendi più ammortamenti) rappresenta oggi il 101% dei ricavi. Pensare che la situazione migliori con l’apertura degli stadi è utopia: il costo per i calciatori continuerà a crescere, sospinto da una concorrenza internazionale che il calcio italiano continuerà a inseguire. Questa dinamica perversa ha gonfiato artificiosamente gli attivi, raddoppiati in 14 anni da 3,1 a 6,7. Finanziare l’attivo richiede capitali che solo in parte possono mettere azionisti falcidiati dalle perdite e sono coperti, in larga parte, da debiti che continuano a lievitare: da 4 a 5,3 miliardi in soli 4 anni ma raddoppiati in 14 anni. 

Gli attivi sono soprattutto immateriali cioè i cartellini, che hanno vita breve e convergono inevitabilmente a zero, così il calcio italiano è condannato a ulteriori perdite. Su un castello di debiti il movimento non può vivere. Occorre pensare a interventi radicali: investire nelle infrastrutture, stadi moderni che incrementino il valore dell’offerta agli spettatori e consentano incassi più robusti. Vendere bene il prodotto all’estero, certo, ma anche disciplinare gli attori in gioco senza compromessi al ribasso. Serve managerialità moderna per ottenere risultati controllando i costi con cura e serve una rivoluzione culturale per capire quanto sia sbagliato definire “investimenti” gli acquisti di calciatori che sono soprattutto costi. Servono altre azioni e altre parole.


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