Maradona e Pelè, fuoriclasse per sempre

Non si sono mai amati: uno il contrario dell’altro Nero e bianco e non poteva essere altrimenti Anche in campo sono stati sempre agli antipodi Ma resteranno inarrivabili
Maradona e Pelè, fuoriclasse per sempre© ANSA
Massimiliano Gallo
6 min

Non si sono mai amati. L’uno il contrario dell’altro. E il paradosso ha voluto che l’uomo dell’establishment, del politicamente corretto, fosse nero. Il ribelle, il cattivo esempio, è sempre stato il bianco. Calcisticamente il dibattito sarà infinito. In Italia se ne occupò persino Limes rivista di geopolitica, fiore all’occhiello dell’intellighenzia nostrana. Figuriamoci se possiamo risolverlo noi. A Napoli ci provarono con una canzone divenuta celebre per il suo primo verso: Maradona è meglio ‘e Pelé. Edson Arantes do Nascimento è stato la prima rockstar del mondo del calcio. Ha anticipato i Beatles. Incarnava il bravo ragazzo, perfetto da sposare. Idolo delle ragazzine e delle mamme. Pelé incantò ai Mondiali del 1958, con la grazia, il sorriso e l’ingenua spavalderia di un ragazzo di diciotto anni catapultato in un Paese lontano: la Svezia. Fu lui a esorcizzare la maledizione brasiliana del Mondiale, a regalare la gioia a un Paese ancora sotto shock per il Maracanazo del 1950. Invertì il corso della storia. La leggenda del Brasile è nata con lui. In finale segnò due gol agli svedesi di Liedholm, uno da antologia con un sombrero al centro dell’area di rigore. È ancora oggi uno dei più belli della storia del football. Fu quello l’anno in cui salì sulla giostra e non ne scese più. Giostra calcistica e commerciale. Le aziende cominciarono a contenderselo. Lui sfoderava il sorriso. E i prodotti vendevano. Talentuoso. Bello. Vincente. Elegante. Tranquillizzante. Pelé era un perfetto testimonial, un uomo copertina. Non a caso l’America lo ingaggiò per promuovere il calcio a stelle e strisce. Andò a giocare nei Cosmos e vinse anche lì. Maradona, invece, di rassicurante non aveva proprio nulla. Né tantomeno di elegante. Esteticamente trascurabile (fuori dal campo, ovviamente), per alcuni impresentabile, con quel pallone faceva di tutto. Aveva il carisma del leader. Al pari di Muhammad Ali, è stato un leader politico prestato allo sport. Perennemente all’opposizione. Decisamente più Rolling Stones che Beatles. O forse sarebbe più corretto paragonarlo a Jim Morrison. Sempre in guerra con i potenti. Dalla parte del pueblo. A lui gli Stati Uniti negarono il visto. Alla perenne ricerca di sfide impossibili. Era divisivo, sempre. E se ne vantava: “Yo soy blanco o negro, gris no voy a ser en mi vida”. Il Mondiale non l’ha vinto certo con Garrincha Didì Vavà oppure Tostao, Rivelino e Carlos Alberto. Forse non si sarebbe nemmeno divertito a conquistarlo così. Diego aveva bisogno di ascoltare il rumore dell’epica, oltre che dei nemici, di avvertire sulla propria pelle quella sensazione di essere in lotta da solo contro tutti. Pelé è stato l’indiscusso primo violino di un’orchestra straordinaria. Brasiliano nel tocco, europeo nella testa. Messico 70 fu il suo capolavoro, il successo che lo consegnò all’immortalità. Quel Mondiale rischiò di non giocarlo. Non andava per niente d’accordo con il ct Joao Saldanha comunista e giornalista. Il tecnico lo accusò di avere problemi alla vista. Nacque uno scontro aspro che finì, ovviamente, con il licenziamento dell’allenatore. Pelé giocò quei Mondiali e fu grande protagonista. Non segnò due gol storici nel giro di dodici minuti, come Diego nell’86. Ma realizzò il primo gol della finale, immortalato nella celebre foto in cui salta su Burgnich. E non solo. Grazie a un suo colpo di testa, Gordon Banks firmò quella che è stata votata come la parata del secolo. E timbrò il gol sbagliato più bello della storia del calcio: quella corsa ad aggirare il portiere dell’Uruguay che vide sfilare il pallone alla sua sinistra e Pelè alla destra. Poi il ricongiungimento e il tiro che accarezzò il palo. Nella contesa tra le due fazioni, prima o poi riemerge sempre un dato: Pelé ha giocato sempre e solo in Brasile, lontano dalle asprezze del calcio europeo. Sul suo cammino non ha mai incontrato un Goigoechea, per capirci. Quando, ai Mondiali del 1966, conobbe le marcature strette del bulgaro Zekov prima e dei portoghesi poi, dichiarò che non avrebbe più giocato in Coppa del Mondo. Diego ha primeggiato nel calcio più violento e permissivo che si ricordi. «Negli anni Ottanta l’espulsione era prevista solo per l’omicidio», ha recentemente dichiarato Schuster. Sul terreno di gioco non si sono mai potuti sfidare. Pelé si è ritirato quando Diego cominciava a sbocciare. Era il 1977. In compenso, però, se ne sono dette tante fuori dal campo. Pelé lo definì diseducativo, arrivò a chiedere che gli fossero tolti i titoli vinti «come fanno agli atleti trovati positivi alle Olimpiadi». Diego gli rinfacciava di stare sempre dalla parte dei potenti e poiché allora il dibattito sull’omofobia non si sapeva cosa fosse, lo accusò di omosessualità, di aver perduto la verginità con un uomo. Cane e gatto. Sempre. Con rari momenti di tregua quando, ad esempio, il figlio di Pelé fu arrestato per droga. Nel 2014, la Fifa consegnò al brasiliano il Pallone d’oro ad honorem. Diego non la prese benissimo. «Io vivo a Dubai - disse - Pelé vive nella Fifa». E ancora: «Sarà sempre ricordato come il secondo miglior calciatore dopo Maradona e, nel suo paese, come il miglior sportivo dopo Senna». Hanno proseguito fino alla fine. Persino la politica brasiliana li ha divisi. Dieci giorni prima che Diego morisse, Pelé si schierò pubblicamente per Bolsonaro. Maradona, invece, sosteneva Lula. Anche il brasiliano ha avuto la sua figlia illegittima, senza però che la madre annunciasse l’evento al telegiornale. Se lassù dovesse esserci una squadra, siamo certi che giocherebbero entrambi con la maglia numero 10. Per non continuare a litigare.


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