I fatti
Rosario D’Onofrio, promosso a procuratore capo nazionale mentre era ai domiciliari, è stato arrestato un’altra volta il 12 novembre 2022 dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Milano. E pensare che un mese e mezzo prima, Trentalange difese la sua categoria con una frase: «Noi non siamo la mafia!». Quando si dice il tempismo... Per evitare il commissariamento dell’Aia, il presidente si è dimesso a fine dicembre, mentre il 20 gennaio è stato deferito per violazione dell’art 4.1 («lealtà, probità e correttezza»). Tra le incolpazioni, l’omissione di qualsiasi iniziativa volta ad accertare i requisiti professionali e la moralità di D’Onofrio, oltre ad aver avallato le continue assenze del collega (che ha intascato 5.247 euro di rimborsi treni per viaggi mai fatti). Ma c’è un retroscena, fin qui rimasto nascosto: Trentalange, attraverso i suoi legali (uno è Presutti, storico avvocato di Lotito, qualcuno ci vede un collegamento sul fronte anti-Gravina...), aveva chiesto a Chiné di patteggiare. Un’ammissione di responsabilità? Il procuratore Figc, comunque, disse no tale era «la gravità dei fatti contestati». La stessa procura federale aveva attenzionato il comportamento di “Rambo” anche nel periodo in cui era in carica, in seguito alla denuncia dell’assistente Avalos che raccontò di essere stato dismesso a causa di alcuni voti appositamente abbassati; D’Onofrio, con metodi discutibili, lo invitava a non parlarne. Nonostante questo, l’Aia ha continuato a proteggerlo. Perché? Una volta che la notizia dell’arresto ha fatto il giro del mondo, Trentalange ha fatto un passo indietro prendendosi la responsabilità politica della vicenda come gli chiedeva il consiglio federale. Ma due giorni fa ha dimostrato in tribunale la propria estraneità ai fatti (la Corte ha deciso all’unanimità e la sentenza, secondo quanto filtra, avrebbe solidissime basi giuridiche), uscendone come uno al quale un amico l’ha fatta sotto al naso. Tutto qui?