Rivera allenatore? E io voglio rifare il praticante

Leggi il commento sull'ex Golden Boy pronto ad acquistare il Bari e ad allenare
Rivera allenatore? E io voglio rifare il praticante© Getty Images
Italo Cucci
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Che bello, ho ritrovato Rivera. Me l’ero perso, il Gianni, e ho a lungo pensato - maliziosamente - che si fosse autooscurato, esiliandosi in una dorata magione di campagna, lontano dai trambusti, dai giornalisti, dai fotografi, celandosi addirittura a sé medesimo, come la Contessa di Castiglione che copriva gli specchi per non rivedersi vecchia dopo lunghi anni di sfrontata primavera di bellezza. In verità il Gianni inconsciamente mi smentisce - non è nuovo per lui tentare di raddrizzar le gambe ai cani - con l’ultima risposta data all’intervistatore del Corriere della Sera quando questi gli ha chiesto “Quanti anni ha?”. «Gianni Rivera non ha età». Tradotto: «Sono eterno». E perché no? È dal 1958 - aveva quindici anni - che so di lui, e ne parlo, ne scrivo, spesso poetando quel divìn 10 premaradoniano. E quante volte mi toccò accompagnarlo all’ennesima mesta festa dell’addio che rimandò sempre, fino a quando lui - non altri - disse basta. Il categorico intervistatore a sorpresa non ti trasferisce il momento intimo di un antico sognatore - peraltro interpretato con giovanile maestria togliendosi gli ottanta in arrivo - ma il progetto di un uomo in carriera, mai ritirato, mai pensionato, che ha finalmente trovato la soluzione del suo ultimo desiderio. Con la pietra filosofale? No, con un’insolita apparizione di denaro e potere nelle mani dell’ex poeta dolente, dell’artista squattrinato sempre alla ricerca di un pigmalione che gli comprasse uno stadio dove poter giocare oltre ogni limite. No, stavolta è lui a offrirsi un futuro unlimited, un cacao meravigliao permanente, non correndo dietro una palla, come quand’era Golden Boy, ma comprando una squadra per farsi mister - finalmente padrone! - come gli aveva promesso Tavecchio buonanima dopo la sventura di Ventura.  

Rivera, nuova vita a ottant'anni?

A ottant’anni - par di capire - un tesserino da allenatore non si nega a nessuno. Con l’aria che tira il capo degli allenatori, Ulivieri, non opporrebbe un “no” come quando toccò al giovin Mancini. E poi? E poi mi fermo qui: onestamente non voglio burocratizzare il sogno di un ottuagenario che vuole completare l’iter pedatorio finendo sulla panchina dalla quale fu spesso malamente giudicato. No. Nelle stesse condizioni anagrafiche del Gianni voglio rubargli il sogno, farlo mio seppur in una versione meno prosaica: dopo aver giostrato a tutto campo nel mestieraccio vorrei tornare a fare il praticante. Il giornalista provvisorio, lo scriba in fieri, l’allievo che cerca il maestro decisivo e lo stile personale, il tutto da raggiungere con sacrifici, privazioni, frustrazioni, notti insonni, polpette di draghi e il futuro visibile attraverso una palla di vetro con la scritta “Rosebud” e un posticino - tanto per cominciare - nel Quarto Potere. Istruito da Orson Welles, l’istrione della Guerra dei Mondi. Oh come mi piacerebbe risentire Totò Ghirelli che dice «da oggi lei è giornalista!» proprio come scrisse di Rivera «lei è un campione!». Gianni vuole istruire in panca dopo aver fatto l’allenatore in campo - da 80, non da 10 - io vorrei semplicemente ritrovare la scrivania banco di scuola, il marciapiede delle sorprese, un tratto di vita bohémien e un mestiere perduto. Ecco cosa c’entra Rosebud. 


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