Questo non è uno scandalo, è un'epidemia

Leggi il commento del Condirettore del Corriere dello Sport-Stadio
Alessandro Barbano
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Questo non è uno scandalo. È un’epidemia. Per la giustizia ordinaria di raffreddore. Per quella sportiva di peste. Un’epidemia di peste può decimare una Nazionale e tagliarla fuori per un decennio dal calcio che conta, condannando a morte un’economia sportiva. Perché Zaniolo, Tonali e Fagioli non sono propriamente accessori, ma piuttosto i pilastri dell’Italia del futuro. Se squalificati, non giocheranno gli Europei 2024, ammesso che gli azzurri riescano ad arrivarci, e non giocheranno le qualificazioni ai Mondiali, che inizieranno a settembre. Il rischio che il contagio si estenda è altissimo, per i motivi che Giorgio Marota racconta nelle pagine interne. Il numero dei giocatori coinvolti nelle scommesse potrebbe crescere. A questi si aggiungeranno, secondo le regole del codice di giustizia sportiva, gli incolpati di omessa denuncia. Cioè tutti coloro che, pur non avendo giocato, erano a conoscenza del vizietto dei compagni. Magari per il semplice fatto di trovarsi in una chat dove transitano messaggi sul gioco. O perché qualcuno degli accusati li tirerà in ballo per offrire una collaborazione e garantirsi uno sconto di pena.
La giustizia sportiva è una giustizia sommaria che somiglia a una santa inquisizione. Incoraggia il pentitismo e impone la delazione, in nome di un malinteso senso della lealtà sportiva. È una giustizia moralista. Che spara nel mucchio, credendo che basti una pesante squalifica per aggiustare il cervello di ventenni ignoranti, talvolta incivili, talaltra depressi, ancorché talentuosi e strapagati. Così i suoi rimedi sono peggiori dei mali che si propongono di combattere.  
Si punisce giustamente l’illecito sportivo, per esempio la scommessa su una partita del proprio campionato o della propria squadra, che ha in sé il rischio di un risultato combinato. Ma si punisce con inaudita e sproporzionata severità la scommessa su altri campionati, anche quando nessun impatto ha sulla competizione. E addirittura si punisce l’omessa denuncia, rischiando di trasformare gli spogliatoi in stanze della delazione dominate dalla reciproca sorveglianza e dal sospetto. 
Quando impatta con una malattia sociale gravissima come la ludopatia, infiltrata come una metastasi nel corpo sociale del sistema, questa giustizia dimostra tutta la sua inadeguatezza e la sua pericolosità. Perché squalificare per tre anni un calciatore di vent’anni, per aver ceduto a una dipendenza patologica, è una risposta impotente, inutile e dannosa. Di più lo è chiedere al suo compagno di stanza di denunciarlo per evitare una squalifica di sei mesi. Se si vuole salvare il calcio, e la Nazionale, questo anacronistico codice va cambiato. Gli illeciti devono essere tipizzati e riferirsi a condotte offensive, cioè in grado di danneggiare realmente un bene o un valore sportivo meritevoli di tutela. Non si possono punire i comportamenti di puro pericolo, meno che mai quelli immorali. Contro i quali servono educazione, studio, formazione e civiltà. Qualità che non si danno per sentenza.  


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