L’Osvaldo, la Lazio e la fedeltà

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L’Osvaldo, la Lazio e la fedeltà
Roberto Beccantini
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Trent’anni, oggi. Il 6 febbraio 1994, una domenica pomeriggio, l’Inter di Osvaldo Bagnoli perdeva a San Siro con la Lazio di Dino Zoff nel peggiore dei modi: in vantaggio al 26’ con un sinistro acrobatico di Ruben Sosa, raggiunta su rigore da Beppe Signori all’87’, sorpassata al 90’ da una staffilata randagia di Roberto Di Matteo, complice il tuffo sbilenco di Walter Zenga. La notte portò scompiglio e, il giorno seguente, Ernesto Pellegrini decise di esonerare il tecnico. Il colloquio, stando ai gossippari di Appiano, sarebbe stato molto crudo. Il presidente: «Si dimetta». Il dipendente: «Si vergogni». Alla vigilia, già sotto torchio, l’Osvaldo aveva fatto testamento: «Dopo l’Inter, non allenerò più». Lì per lì, la cronaca e la storia lo presero per uno scroscio di irosa malinconia e non per una tormenta esistenziale. Aveva 58 anni. Non allenò più. Le parole dovevi rubargliele, la parola no: era una, una sola. In un’intervista a Fabio Monti, pubblicata sul “Corriere della Sera” del 7 febbraio 2004, confessò che sì, c’era stato del movimento, ma «senza calcio vivo bene».

Lo Schopenhauer della Bovisa

Milanese e milanista, dalla Bovisa a Juan Alberto Schiaffino e Nils Liedholm, una carriera da mediano (tanto per fare il verso al Liga), Gianni Brera, cui si deve l’appellativo di “Schopenhauer” per quel fondo di pessimismo che affiorava dal carattere, raccontò che Silvio Berlusconi lo aveva scartato perché “comunista”. Vinse uno scudetto memorabile con il Verona nel 1985; condusse il Genoa al quarto posto, al sacco di Anfield (prima italiana a suonarle al Liverpool nella sua tana) e alle semifinali della Coppa Uefa 1992; per tacere della stessa Inter, accompagnata all’argento del 1993 dietro il grande Diavolo dell’epoca. Ma non è il curriculum che stuzzica, per significativo e selettivo che sia stato. È la scorza. È la coerenza. Nello sport, i ritiri sono tagli traumatici. Agitano riflessioni, cedimenti, capriole. Il postino suona sempre due volte: e resistergli non è facile.

Il profeta del gegenpressing

“Zaso” non gli ha più aperto. Dai suoi tempi, la figura del mister ha subìto - e imposto - accelerate frenetiche. Al di là dei confini tattici, dal momento che tra l’uno e l’altro c’è di mezzo un secolo, Bagnoli ha qualcosa di Jürgen Klopp, il profeta del “gegenpressing” che ha appena rivelato: «A giugno lascio i Reds»; e che, almeno per una stagione, non si impegnerà con e per nessuno. C’è un botta e risposta segnalatomi da un lettore che appartiene al tedesco, ma che avrebbe potuto tranquillamente decorare, come una medaglia, la sua tuta. Nel dettaglio: «Lei fa questo mestiere per arrivare ad allenare la squadra più forte del mondo? No, per batterla». Ops.
Fedeltà canaglia. È il caso di Fabio Capello. «La Juventus? Mai», giurò quando pilotava la Roma. Doveva essere una pedata alle voci, alle tentazioni, e, dunque, una “fine”. Fu, invece, un “inizio”. L’ennesimo. A conferma che la differenza che separa l’ hombre diagonal dall’hombre vertical è materia ambigua: ognuno si regola come crede. «Il destino mescola le carte e noi giochiamo», scrisse un certo Arthur Schopenhauer. A proposito.


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