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Leggi il commento all’indomani della bufera scatenata dall’improvvisa iniziativa del governo sui controlli alle società
Alessandro F. Giudice
4 min

All’indomani della bufera scatenata dall’improvvisa iniziativa del governo sui controlli alle società occorre chiedersi, in primo luogo, se possa costituire una soluzione ai problemi di equilibrio finanziario del calcio italiano. 
I numeri sono impietosi: l’ultimo Report Calcio della FIGC riporta uno squilibrio economico (ricavi meno costi) che sfiora i 4 miliardi nel quadriennio 2018-2022 per il settore professionistico (A, B e C) con 10 società non iscritte ai campionati. La sola Serie A ha perso 3 miliardi. 
Una debolezza di sistema legata, dal lato dei ricavi, all’incapacità dei nostri club di incrementare i proventi commerciali sui mercati internazionali e della Lega Serie A di allestire un prodotto appetibile per le platee televisive globali. Dal lato dei costi, alla difficoltà di inseguire concorrenti esteri che crescono a ritmi più sostenuti e al perverso sistema di incentivi economici che obbliga i club a farsi concorrenza allestendo rose troppo costose, con l’obiettivo di assicurarsi un posto nel paradiso dei tornei UEFA. Oppure un posto in Serie A, per chi sgomita nelle serie inferiori. 
I controlli affidati alla Covisoc sono oggi in realtà piuttosto blandi: verificare il versamento regolare di stipendi e ritenute da parte dei club e l’inesistenza di debiti scaduti verso FIGC, Lega, altri club, erario e federazioni estere. Controlli più formali che sostanziali, perché puramente formali sono i requisiti per l’iscrizione ai campionati.

L'indice di liquidità

Il problema vero è che l’asticella dei parametri finanziari è stata progressivamente abbassata per adeguarla alla debolezza del movimento, anziché costituire uno stimolo a gestioni più virtuose. Prendiamo l’indice di liquidità, cioè il rapporto tra attività correnti (esigibili entro 12 mesi) e passività correnti ovvero debiti a breve termine. Nel mondo delle imprese “normali”, un indicatore inferiore a 1 è un marker di tensione finanziaria. Pure il Codice della Crisi d’Impresa lo annovera tra i possibili elementi segnaletici di uno stato di potenziale insolvenza. Nel calcio italiano, il limite consentito è 0,6 cioè un livello che dovrebbe già allertare su una possibile crisi in atto. Sarebbe come dire che si può avere 39 di febbre stando bene. Diversi club di Serie A sono andati perfino sotto, ma l’indicatore di liquidità non è un requisito vincolante per l’iscrizione al campionato. Lo era, ma fu rimosso a furor di popolo. Ogni successivo tentativo da parte di Gravina di rafforzarne la valenza (o almeno di aumentarne la soglia) è stato rintuzzato da vigorose levate di scudi in Lega Serie A perché il sistema dei club – paralizzato da intrecci di favori incrociati e da alleanze trasversali su questioni di bassa cucina – trova sempre il modo di fare quadrato quando si deve giocare al ribasso. 

Il futuro

L’iniziativa del governo servirà probabilmente a distribuire poltrone ma non cambierà di una virgola lo status quo, perché se la febbre è troppo alta non ha senso incolpare il termometro. A nulla serve cambiarlo se non si cura il male. A meno che l’obiettivo sia un altro: attribuire alla nascente “Agenzia per la vigilanza economica e finanziaria delle società sportive professionistiche” la facoltà di riscrivere le regole, auspicabilmente in senso restrittivo. Sarebbe una potente umiliazione per l’autonomia del calcio che, occorre dire, non ne ha fatto buon uso. Tra le righe del provvedimento se ne intravede l’intenzione: più che altro sembrerebbe una sterzata dirigista, certamente eccessiva e forse contraria alle norme sportive internazionali. In ogni caso, attendersi una riforma delle regole finanziarie da un organo di 30 membri (una specie di mini parlamento) pare quanto mai improbabile. 


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