Italia, un sogno Mondiale
Si schierano in ordine naturale: a destra le due “matte”, esuberanti e rumorose, Sara Gama e Raffaella Manieri; a sinistra le due posate, ordinate, organizzate, Laura Giuliani e Katia Schroffenegger. Sono le “straniere”, le quattro azzurre emigrate all’estero, in Germania e Francia, dove il calcio femminile è cresciuto e sta crescendo, grazie anche all’affiliazione alle squadre maschili, come un matrimonio possibile, ne prendono anche il nome: Bayern Monaco o PSG... Spiegano: «Usiamo i loro impianti, i loro fisioterapisti, i loro macchinari. In Germania o Francia hanno ragionato in prospettiva, sono stati lungimiranti. In Italia non ci sono più soldi e il calcio è in crisi, anche quello maschile perché non si investe più nei vivai». Ed eccole qui, a raccontarsi, in una pausa caffè, un po’ giocando, ma anche molto seriamente, con la testa al grande appuntamento con l’Olanda, ultima sfida che può portare la Nazionale femminile di calcio ai Mondiali del 2015. Oggi e il 27 novembre sono la dogana del sogno: controllo, tutto a posto e via... «L’Olanda è una signora squadra. Corrono... sarà dura. Useremo la nostra furbizia. Noi abbiamo tattica e tecnica. Abbiamo esportato il made in Italy anche nel calcio e non ci siamo accorti che intanto è diventato uno sport fisico». Che belle storie sono queste donne, che il calcio in Italia poco riconosce e poco considera, che hanno giocato per strada con i maschi e hanno continuato a farlo fino a 13 anni in un calcio misto covando passione, perché nemmeno sapevano che esistesse la femminile, che non hanno rinunciato e che sono dovute emigrare dietro a un pallone perché il calcio è anche affar loro.
STORIA DI SARA - Si sdraia quasi sulla sedia, con la sfacciataggine di chi rinnega la propria timidezza e ha i capelli ricci e ribelli di chi non sta zitta mai. Sara Gama, la chiamano Speedy, proprio come il topo Gonzales. Ha le gambe sottili e pensi che non possano essere quelle di una calciatrice. «Ho provato anche a fare atletica, ma correre a vuoto non fa per me». Ha 25 anni e gioca da quando ne aveva sette, ce l’accompagnava il nonno perché aveva la macchina. Ma il nonno non ha fatto i tempo a vedere fin dove è arrivata. E’ nel Paris Saint Germain perché l’ha cercata e lei per un po’ si è anche negata. «Avevo avuto richieste dall’estero, ma non ero pronta. Quando mi è venuta la voglia di mettermi alla prova e di imparare un’altra lingua ho scelto la Francia. Siamo il PSG ma non abbiamo contatti con la maschile. Usiamo le loro strutture, i loro osteopati, i loro macchinari. E’ un vantaggio è ovvio. Verratti? Sì ci ho scambiato qualche parola. Insomma, il calcio femminile è un lavoro: ho stipendio, contributi e tante opportunità. Qui in Italia invece le donne sono dilettanti, così firmi e sei vincolato fino ai 25 anni e se cambi città per lavoro magari sei costretto a lasciare il calcio perché la società non ti libera». Gli infortuni l’hanno condizionata, ma ora sta bene. «Sono al cento per cento. Tanti infortuni ti fanno passare la voglia. Ora però si è riacceso l’entusiasmo. Stare bene fa la differenza». Vive da sola da tanti anni e non ama cucinare. «Però ho insegnato alla mia amica polacca, dal nome impossibile, a fare l’amatriciana e il caffè con la moka. Mi piacerebbe avere dei figli e poi voglio viaggiare, appena posso lo farò. Mi mancano il mare e Trieste e lì voglio tornare alla fine. Anche della famiglia ho nostalgia, gli amici quelli veri restano. Insomma, vai in giro per una vita ma casa è casa...».
STORIA DI RAFFAELLA - Ha l’occhio luminoso e aperto di chi non si lascia sfuggire nessun movimento dell’avversario. Raffaella Manieri, 28 anni, scommette con se stessa ogni giorno e scommette col suo corpo sollecitato dalla fatica. Severa, non si concede trasgressioni, casa-allenamento-casa. Ha tolto il glutine dalla sua dieta per aumentare le prestazioni. Non va più a ballare perché poi non recupera come una volta. L’amore le manca ma ora c’è spazio solo per il calcio. Ride e diventa seria in un solo attimo, si abbatte scherzosamente sul tavolo. Dall’aspetto serio non diresti che dietro si nasconda una burlona. Al Bayern Monaco ci è arrivata da sola e il posto da titolare se lo è conquistato con l’abnegazione. «Ho iniziato per passione, nessuno in famiglia aveva interesse per il calcio. Quando ero in Italia guadagnavo il giusto per vivere l’oggi, ma niente per il domani. All’estero hai tutto, anche i contributi. Dopo l’Europeo volevo fare questa esperienza e vedere se ero in grado di competere con le migliori. Non c’è discriminazione, là siamo tutti uguali. Il Bayern è una potenza ma ancora nella femminile non investe come nella maschile. Sfruttiamo i loro mezzi, come il campo sintetico riscaldato, ma pur essendo la stessa struttura non ci incrociamo mai con la maschile, siamo nettamente separati. Ogni tanto quelli del Bayern vengono a salutarci. Non parlo tedesco ma mi viene la voglia di scambiare due parole. Stiamo crescendo, dobbiamo solo vincere qualcosa. Appena accadrà, aumenterà anche il pubblico. In Germania curano il dettaglio e non danno mai niente per scontato. In Italia sono dilettanti allo sbaraglio. Quando torno mi viene la rabbia, mi sento male. La Nazionale però mi dà la carica. L’Italia dorme e ti mette nelle condizioni di andare via. In Germania non si sgarra e funziona tutto. Se mi capita di fare la furba mi dicono Italia-mafia». Adora Mina, ascolta Celentano e di Renato Zero ama le canzoni più stravaganti. E poi balla, Raffaella balla sempre: «Anche in macchina», aggiunge la compagna di squadra e di casa, Katia. «Sono sempre allegra e se ho il muso devo proprio stare male. Io decido la musica per lo spogliatoio. Però faccio una playlist chiedendo alle mie compagne cosa preferiscono. La famiglia mi manca sempre più, ma indietro non tornerei e mi vedo in giro per il mondo su un camper». E l’amore deve attendere. «A certi livelli se non stai con una persona che fa sport non ti capisce. E poi sono impegnata, il tempo è poco e la sera vado a letto con gli elettrodi, non è il massimo dello spettacolo (ride ndr). però questo è quello che mi realizza, che mi rende felice e che voglio adesso».
STORIA DI LAURA - La più piccola è Laura Giuliani, 21 anni, i capelli tirati e gli occhi belli belli. Anche lei è emigrata in Germania, con il fidanzato però, aspirante calciatore («Guadagna più di me»). Che giocasse a pallone la mamma lo ha scoperto per caso, quando ha iniziato a tornare a casa con i vestisti sempre sporchi. Dopodiché ha provato a convincerla a fare nuoto e pallavolo. Alla fine la madre si è arresa e non si è persa mai una partita della figlia. «Gioco nell’Herforder, una piccola squadra di una piccola città. Volevo fare questa esperienza sportiva e personale, staccarmi dalla famiglia e confrontarmi con una realtà diversa. Mi piaceva l’idea di gestirmi da sola.. Anche il mio ragazzo fa il portiere e spera di sfondare. Con tutto il fango che portiamo a casa, abbiamo già rotto una lavatrice. Mi piace fare la casalinga. Qui è tutto più semplice. A 16 anni ti fanno un contratto, ti pagano stipendio e contributi e capisci se puoi andare avanti e vivere di questo. Ho imparato il tedesco e finalmente quando sono con i parenti di papà che è del Sud Tirolo parlo la stessa lingua. Mi manca qualcosa però... - sta per commuoversi, Manieri allunga una mano sulla sua spalla e la coccola - qualcosa che ti accorgi di non avere più solo quando la lasci, ma è troppo personale, non dico cos’è. Il calcio è passione a me basta un riconoscimento e non penso tanto ai soldi, adesso, credo che tutto quello che si fa entri nello zaino, un bagaglio che ti porti dietro per sempre. Sogno di visitare l’America».
STORIA DI KATIA - Dice che non è vero, ma tanto facile il suo cognome non è: Schroffenegger. Pronunciato da lei, Katia, 23 anni, suona musicale; ripetuto da noi è un disco rigato che si inceppa continuamente. Bionda e con gli occhi azzurri, di madrelingua tedesca, in Germania si confonde con i locali. Tra la banda del paese e il calcio ha scelto di fare il portiere. Suona nove flauti più il traverso. Studia Scienze della Comunicazione, lavora, ed è una calciatrice del Bayern Monaco. «Non riesco a pensare solo al calcio, penso al futuro. Sì, non mi piace fissarmi su una sola cosa. Vorrei fare la giornalista o entrare all’Università. Mi sto preparando diverse strade e alla fine sceglierò. Mi piaceva il pallone, così andavo con la mamma di un bambino con cui giocavo per strada. Lei portava il figlio e io stavo con lei. Poi ha messo su una piccola squadra nel mio paesino di montagna e ho risolto. Ogni tanto suono, quando torno a casa». Le piacerebbe allenarsi con Neuer, considerato il miglior portiere. «Purtroppo non è possibile, loro si allenano a porte chiuse e nemmeno noi possiamo assistere. Qui in Germania funziona tutto, anche per una trasferta ti arriva il dettaglio del programma di viaggio. E' un ordine che mi appartiene perché in Alto Adige è così. Io sono una precisa è stato difficile all’inizio convivere con Raffaella. Ma ora abbiamo capito e rispettiamo le nostre esigenze e i nostri spazi. Lei sa che se la porta è chiusa non mi deve disturbare». Non è facile stare lontano da casa, specie se sei cresciuto circondato da montagne altissime. Quando le perdi di vista, così come il mare, manca l’aria. «Mi mancano moltissimo le montagne. La mia casa è a 1500 metri. Quando mi hanno detto che la Germania era piatta ho detto “non è possibile”. Un giorno mi hanno portato a fare un’intervista su una montagna, secondo loro: era alta 300 metri!». Katia parla poco, ascolta e infila ogni tanto una parola, una precisazione, un punto. Ferma la palla, per capirsi, la gira nelle mani e la rinvia.
