Calcio femminile, Chiara "Brontolo" Marchitelli: «Il mio sogno è il Mondiale»

Intervista a tutto campo al portiere del Brescia: «L'Olanda è forte ma all'Italia non manca niente per passare. Farebbe bene al movimento femminile. Ho iniziato nella Lazio a 13 anni, fino ad allora avevo giocato coi maschi. Tifavo Juventus, mi piacevano Del Piero e Zidane. Anche Totti, perché ha sempre giocato nella stessa squadra”
Valeria Ancione
12 min
Capelli lisci sulla fronte, come un'onda di traverso, l'aria scanzonata, il sorriso malandrino e lo sguardo diffidente: una faccia un po' così... un po' “monella” un po' fumetto: Brontolo, da quando? “Da sempre”. Perché questo soprannome? Ridacchia e cerca le parole. Ma ce ne vogliono poche: protesta, bofonchia, parla tanto. D'altra parte, se così non fosse stata, oggi non sarebbe quello che è: Chiara Marchitelli, numero uno, portiere, né di notte né di stabile, ma dei pali, della porta, l'estremo difensore o come lo si vuol chiamare. Estremo è estremo: vive in solitudine dall'altra parte del campo il momento più bello della propria squadra: il gol. “Troppo lontano per correre a esultare con le mie compagne”. E quasi sola con se stessa vive anche il momento più brutto: il gol nella sua porta. Capro espiatorio di una sconfitta, perché un gol subito non pesa quanto un gol mancato.

Concentrazione massima, occhi vigili, fiuto del pericolo, gambe molleggianti da tennista in ricezione, tutti i sensi allertati, soprattutto quando non succede niente. “Capitano le partite noiose, in cui non tocco una palla – spiega Marchitelli – E sono le più pericolose, perché se stai ottanta minuti a fare niente è difficile restare concentrate. Io mi muovo, cerco di focalizzarmi sulla palla. Parlo e urlo coi difensori. Perché dalla mia posizione vedo tutto e posso suggerire alla difesa come stare dentro l'azione. Sì, un po' sole ci si sente, però una parata dà sensazioni enormi. E' un ruolo fondamentale il mio, di responsabilità. Nessuno può riparare agli errori di un portiere, mentre noi dobbiamo riparare a quelli degli altri”.

Tuttavia voleva fare l'attaccante o il centrocampista o cosa esattamente, Chiara? “Io volevo giocare a pallone”. E punto, non ci sarebbe bisogno di altro. Poche, sentite parole per spiegare perché una ragazzina si incaponisca e brontoli fino a sfinire i genitori per ottenere di essere portata sul ciglio del sogno. Sacrifici enormi, suoi e della famiglia. La storia è tutta qua. “Ho iniziato nella Lazio a 13 anni, fino ad allora avevo giocato coi maschi. Ma prima di tutto per strada; le pallonate contro la saracinesca del garage e la salitina, io tiravo e la palla ritornava giù”. Insomma palleggiava con la pendenza. Un principio di solitudine c'era, in una famiglia molto femmina: tre figlie, una ballerina, l'altra troppo studiosa e lei, Chiara, Brontolo, che voleva fare il calciatore. Occhietto furbo e testa pensante che con astuzia e false promesse otteneva l'uno contro uno con la sorella, che del pallone non gliene importava niente, in cambio della sua disponibilità a giocare con le Barbie (“ma poi non lo facevo mai”). Barava, dunque, ma non con la madre che sullo studio non chiedeva promesse ma fatti. Serietà e disciplina. “Del nuoto, quando era tempo di fare l'agonismo, mi ero già stufata. Ho provato altre cose anche la pallavolo, ma alla fine i miei mi hanno accontentata. Così ho giocato con i maschi, nemmeno sapevo che esistesse la femminile”. Su e giù con la macchina. Sessanta chilometri avanti e indietro, dalla campagna in provincia di Roma alla città. “Quando andavo al liceo, mi svegliavo alle 5, prendevo i mezzi per arrivare a Roma e a scuola. Studiavo dove capitava: in ospedale, dove mamma lavorava come infermiera. O a casa di amiche. Fino all'ora degli allenamenti. Poi rientravo alle undici di sera. Non avevo voti altissimi ma sono sempre stata promossa. Mia madre era molto esigente. Ho sempre pensato di averla delusa per non essermi laureata. Invece un giorno mi ha detto «visto dove sei arrivata, la tua scelta è stata quella giusta». Che soddisfazione... Sono felice per come sono stata cresciuta. In casa c'erano regole ben precise e certe priorità, scuola ed educazione. A 10 anni non le capivo, a 14 le odiavo e scappavo in bicicletta o a piedi per giocare a pallone. Oggi ho l'impressione che ci sia tanta maleducazione negli adolescenti, mancanza di rispetto verso gli adulti. Una bella pizza (schiaffo ndr) ogni tanto ci vorrebbe. Ma di questi tempi i genitori mi sembrano molto lontani dai figli”.

E lei ha voglia di figli? “Non so, non credo di avere l'istinto materno. Un individuo che dipende in tutto e per tutto da te è impegnativo, una grande responsabilità. Ed è anche faticoso. Già mia nipote mi distrugge! Insomma, un figlio non si fa perché si ha voglia di averne uno. I bambini mi piacciono però non basta”.

Ha saputo badare a se stessa fin da giovanissima. Dai 17 anni si mantiene da sola. E' alla seconda stagione nel Brescia, alla prima ha vinto lo scudetto spodestando la Torres. Ma prima ha girato molto: Lazio, Oristano, Monza, Roma, Udine. E' nazionale e sta per giocarsi i Mondiali del 2015: l'ultima settimana di novembre contro l'Olanda. Ammette di essere “tra le poche fortunate che in Italia riescono a vivere di pallone”. Stipendiata sì, ma precaria. Appesa ogni anno a quel che sarà. Ecco perché Chiara sta cercando di imparare... a lavorare. “Non giocherò a calcio a vita né ho guadagnato così tanto, come gli uomini, da poter vivere di rendita. Adesso collaboro con una società che si occupa di vendita di immobili e assicurazioni. Non penso ai soldi per ora, ho solo chiesto: «insegnatemi questo lavoro». E' un impegno compatibile con il campionato e con le assenze per la Nazionale”.

In un Paese che vive di calcio, se ne abbevera, ne stramangia e scarta, snobba quello femminile, le donne sono fortemente penalizzate. Il professionismo, così come l'affiliazione tra società di A e B maschili e femminili sarebbero segnali importanti per fare uscire il movimento allo scoperto. “Solo l'Italia è rimasta sorda agli inviti della Uefa. La Francia, per esempio, ha fatto passi da gigante. Fino a dieci anni fa era combinata come noi. Basterebbe copiare il progetto di un'altra nazione. Certo all'inizio non si può essere mossi dalla logica del guadagno, però è un investimento e i profitti arriveranno. Il professionismo è un atto dovuto, non pretendiamo tanti soldi. Comunque, se già si inizia a cambiare lo statuto possono cambiare tante cose”.

Nessuna battaglia di genere, né imposizione di quote rosa, ma solo riconoscimento di un sacrificio fatto per passione. “Io ho rinunciato alla mia adolescenza, lo rifarei, ma sento che mi manca un pezzo di vita. C'è chi rinuncia a un buon lavoro, se è incompatibile con il campionato. Bisogna scegliere e bisogna farlo quando si è giovani, senza pensare troppo a quello che verrà. Io non ci ho mai pensato molto. La maggior parte delle calciatrici fa enormi sacrifici, primo fra tutti quello di lavorare otto ore e poi correre agli allenamenti di sera, al freddo e alla pioggia. E cosa te lo fa fare se non la passione?”

Eccola la voce di Brontolo che si alza di tono, che marca gli accenti, poi riscende e si quieta alla ricerca di risposte a cose a cui non aveva mai pensato di dover rispondere. Così è presa in contropiede: che colore è una bella giornata? Ci pensa. “Arancione”. Ci sta, è proprio il suo colore. La giornata nera invece la tinge di marrone. Alla soglia dei trent'anni, il portiere del Brescia, sta rinnovandosi, cercando altro di sé oltre quei guantoni. Ecco, dunque, spiegata la voglia di imparare un lavoro. Ed ecco anche il sogno di Chiara. “Andare ai Mondiali, questo voglio adesso. L'Olanda è forte ma all'Italia non manca niente per passare. Dobbiamo essere consapevoli di farcela. Al di là delle ambizioni personali, farebbe bene al movimento femminile”.

Non voleva fare il portiere, ce l'ha messa Sergio Guenza, un giorno che la titolare mancava e lei era la più alta di tutte. Poi l'ha torturata ogni giorno fino a convincerla che quello era il suo ruolo. “Oggi lo ringrazio”. Sarebbe stato un errore se non un rimpianto non diventare portiere, così come forse è un rimpianto non essere andata a giocare all'estero: “Una volta nella vita bisognerebbe prendere e partire. Ai miei tempi non era così semplice e io non me ne sono mai interessata”.

Libera. E' cresciuta così Chiara. Libera anche di credere e di smettere di farlo a un certo punto, pur avendo indossato gli abiti da chierichetto ed essere andata tutte le domeniche a messa. Libera di scegliere, crescendo all'aria aperta in campagna tra cavalli, animali e pallone; di farsi dei tatuaggi senza significato. “I miei sono solo estetici. Tranne la L dietro l'orecchio, l'iniziale di mia nipote e i numeri delle maglie delle mie migliori amiche: il 2 e il 6 (il 2 non gioca più, il 6 è di Iole Volpi della Roma). Piercing? Quelli che ho sono ordinari”.
Legge tanto, di tutto, velocemente come le ottocento pagine in due giorni di “La verità sul caso Harry Quebert”. Ma se un libro non le piace lo molla. D'estate si è fatta fuori tutti gli Harry Potter e ama le biografie. Al cinema va quando può, “Canone inverso” è il film visto e rivisto. Ha studiato il pianoforte di controvoglia e il suo primo amore è stato Vasco Rossi: “E anche il primo concerto, a Perugia, avevo 14 anni. Ora ascolto soprattutto la radio”.

Ha smesso di seguire la serie A: “Non mi attrae più niente del nostro calcio. Tifavo Juventus e non ho mai avuto idoli calcistici. Mi piacevano Del Piero e Zidane. Anche Totti, perché ha sempre giocato nella stessa squadra”.

A Brescia si trova bene. Una città piccola è la dimensione giusta per lei. “Non tornerei a vivere in campagna e nemmeno a Roma. Però mi piace venire a giocare contro la Res, c'è sempre tanta gente. Anche il Brescia contro il Lione in Champions ha fatto una bella operazione di pubblicità: c'erano cinquemila persone, emozionante. Tutto sommato abbiamo la fortuna che i tifosi del Brescia maschile si sono avvicinati a noi e riusciamo ad avere anche tremila persone alle nostre partite”.

La vita rotola come un pallone, ogni anno, ogni stagione con un disegno diverso. Chiara Marchitelli, portiere per caso, ci mette le mani ma sa usare anche i piedi (“perché prima ho giocato a pallone”). Si trucca poco perché non lo sa fare e il rossetto non le piace. Le gonne non saprebbe quando indossarle, ama i tacchi “ma fanno male e sono scomodi per fare le cose semplici come la spesa o correre per prendere un autobus”. Il suo pezzo forte in cucina è la lasagna e il piatto preferito è la parmigiana della mamma. Non può fare a meno del telefono “ma ogni tanto bisognerebbe disintossicarsi”. Chiara come il nome, nell'amicizia è leale e non tradirebbe mai. “Non so se ho fatto del male a qualcuno, ma sono una persona corretta”. La precisina Marchitelli: doppia borsa, una per gli allenamenti e una per la partita; ordinata, non sopporta il dentifricio lasciato aperto. Si concede la Nutella spalmata sul pane e ha abbandonato le scaramanzie: “Erano una schiavitù”. Queste sono storie di vita e passione, storie di pallone, perché il calcio è anche donna. La femminilità poi è un'altra cosa ed è nascosta sotto a una divisa troppo da maschio. Ci pensa un po' Chiara: “La femminilità? E' un jeans a sigaretta su un tacco molto alto e sottile”.
 

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