ROMA - “Ora, quando mi guardo, non vedo quella di sempre. Però ho ricominciato”. Silvia Fuselli è tornata in un sé che ancora non riconosce ma che vorrebbe uguale a quello di prima. Pronti prontissimi via, come quando sei bambino e l'adrenalina è tutta in quel pronti; e cresce a dismisura e fa tremare le gambe nel prontissimi; e poi esplode di potenza nel via che dà benzina alle gambe e accelera la corsa e accende lo sguardo che punta il traguardo. La testa però deve correre più delle gambe. Non è “arrivo dove posso”, ma “arrivo dove ho creduto di non potere più”. Ecco il racconto dell'attaccante che arretra e diventa centrocampista e poi terzino. Ma il cerchio non è chiuso. Punto e a capo: Silvia ricomincia da Silvia. “Questo è l'anno più difficile. Tutto è partito da un virus alla tiroide e ora ho il morbo di Basedow. Fisicamente sono a pezzi. Problemi agli occhi e stanchezza. Tachicardia e tremori. Mi è presa l'ansia. Mi sono chiusa in casa per mesi, uscivo solo per andare agli allenamenti. Non dormivo più. Poi piano piano la testa ha ricominciato a funzionare, ho ripreso coraggio e mi sono detta che posso fare tutto. La verità è che pensavo di essere infallibile e sono andata in crisi quando ho scoperto che non è così. La famiglia mi ha aiutato molto e anche gli amici qui a Verona mi hanno alleggerito di tanto peso. Ho ripreso, mi alleno, sono stanca ma ho smesso di pensarci. Non essere la calciatrice di sempre mi mette a disagio. Il mister Longega mi ha detto che non devo dimostrare niente. Mi ha aiutato molto parlare con lui. Di natura sono pessimista, penso sempre al peggio. Sono dovuta andare a fondo, mi sono dovuta chiudere, isolare per poi ripartire”.
UN NUOVO INIZIO. Si impara a zoppicare, si cambia il ritmo e l'ordine delle cose ma poi si va oltre la paura o il dolore. «Mi sono dovuta adattare a ruoli diversi. La squadra mi aiuta, io mi sono messa a disposizione e ho trovato la forza per andare avanti». Un’evoluzione che fa rima con occasione. “Sì, la sfortuna è stata anche una fortuna. Non mi sarebbe mai capitato di andare a giocare in difesa. E poi il terzino è un giocatore di fascia, mio posto naturale, corro spingo. Certo sono stata sempre abituata a scappare e non a inseguire. Mi diverto di meno perché sono troppo lontana dalla porta, però sei gol li ho fatti. Da attaccante il mio record è 18 gol. Certo segnare da difensore è una bella soddisfazione”.
A 33 anni è solo l'inizio della storia di una donna. Silvia parla veloce ed è come se corresse verso la porta col fiato sospeso, a respirare ci penserà dopo. Come in quest'ultima partita che assegna lo scudetto. Verona in vantaggio di un punto sul Brescia. Verona in Emilia Romagna. Brescia a Roma. E solo il Verona può mandare tutto all'aria. Deve vincere, non ci sono altri risultati possibili. Per Silvia è un déjà vu: l'anno scorso era in vantaggio con la Torres, ma all'ultima giornata lo scudetto lo ha vinto il Brescia. E brucia ancora. Sarebbe stato il suo quinto scudetto, invece è stata la fine del sogno sardo, la fine della grande Torres che vinceva tutto. La fine e l’inizio con il trasferimento al Verona. “Siamo tranquille, c'è una tensione positiva. Mi auguro che quest'anno vada diversamente. C'è un senso di rivalsa in me. La Res è salva e il San Zaccaria farà i play out, ma nel femminile non si ragiona, si gioca per vincere”.
LA TERRA, LA LAUREA, IL CALCIO. Da piccola voleva fare la contadina poi il pallone l’ha portata lontano. Al calcio ci è arrivata grazie alla cugina Gessica che ha dovuto convincere gli zii, contrari a una figlia calciatrice. “I miei proprio non ne volevano sapere, ora mi seguono ovunque. Prima però mi sono dovuta laureare. Era il compromesso e a me stava bene. Quindi ho preso la laurea in tossicologia. Speravo di entrare alla facoltà di medicina, non ce l'ho fatta. Però volevo fare qualcosa di difficile. Ho studiato a Pisa e in quegli anni giocavo a Lucca, poi a Pistoia. Pensavo di voler fare la ricercatrice, ma stare chiusa in un laboratorio non era la mia strada: io ho bisogno di stare all'aria aperta. Conclusa l’università, ho fatto solo calcio. Torino e quindi la Torres. Di quegli studi non me ne farò niente, ma sono un arricchimento, li rifarei”. Il dopo calcio non la spaventa, Silvia sa cosa vuole. “Probabilmente tornerò a casa in Toscana a occuparmi dell'azienda agricola di famiglia. Quando ero piccola andavo per i campi con mio padre e crescendo, d'estate, lo aiutavo: mi piace proprio. Voglio tornare a vivere lì, ristrutturare la casa dei miei e aggiungere alla produzione di spinaci, bietole, cavolo nero e soprattutto basilico, anche la ristorazione”. Non è un caso questo, perché Silvia è amante della cucina. Il nonno e la madre sono i suoi chef di riferimento. Della mamma ha trascritto tutte le ricette su un quaderno, sperimenta e ha fatto anche diversi corsi di cucina. «Mi piace mangiare bene e andare per ristoranti. Cucino anche solo per me. Quando vivevo a Sassari lo facevo per tutti. Qui a Verona raramente mangio con le mie compagne. Mi manca la fantasia, è il mio limite. Seguo Master chef per vedere cosa preparano”. Dei sette anni di Sassari, gli ultimi tre ha vissuto da sola. A Verona è tornata a condividere l’appartemento con altre due compagne. “Ho fatto un passo indietro. Strano. In Sardegna non ne potevo più di stare insieme ad altre. Sono venuta a Verona con più disponibilità all'apertura e ho trovato le persone giuste. Sto bene, sono a mio agio anche se difendo sempre i miei spazi”.
La vita di una calciatrice è come un calendario di partite: inizia, finisce, ricomincia. Ogni anno si rimette in discussione tutto, la precarietà è un dato di fatto e Silvia vive consapevolmente il qui e ora. Le sue certezze sono altrove: la famiglia, la campagna, la sorella Stefania, la cugina Gessica. “Sono legatissima a mia sorella, rappresenta tutto per me, è la mia migliore amica, ora vive a New York col marito pugile. Ci sentiamo sempre. Lei parla più di me e io ascolto. Mi manca sempre, anche se alla distanza ormai siamo abituate”. Non ha una squadra del cuore e la sua simpatia di bambina per la Juventus, già talmente debole allora, oggi è solo un ricordo. Zidane è un mito, Messi è poesia. Il calcio bello lo guarda in tv. Per il resto le sue distrazioni sono il cinema, e ci va anche da sola, la lettura sopra a ogni cosa e la musica in cuffia sempre. “Al cinema vedo di tutto. Solo gli horror non mi piacciono. Leggo e compro tanti libri. Se non mi piacciono non li finisco. Alla fine sono più quelli che lascio che quelli che leggo. Quando entro in una libreria ci resto le ore. Mi catturano il titolo e poi la trama. Alla copertina invece non presto attenzione. Fuggo dai libri con su scritto “venduto un milione di copie”. La musica è fondamentale. Ascolto i cantautori italiani, quelli di altri tempi, ma soprattutto il rock”.
Gambe muscolose a parte, che fanno scegliere alla stragrande maggioranza delle calciatrici i pantaloni, Silvia ha un buon rapporto col suo corpo. «Il mio fisico è costruito per lo sport e va bene così. Non ho un'autostima così elevata da guardarmi allo specchio e dirmi che sono bella, però nemmeno il contrario. Le gonne mi piacciono ma meglio i pantaloni. I muscoli belli sì, in campo dove hanno un senso». Tacchi nemmeno a parlarne. Due piercing, nessun tatuaggio e nemmeno si trucca. “Sono semplice”, dice Silvia. E poi la bellezza non ha bisogno di trucco. Il trucco è un inganno e Silvia, pur nelle sue chiusure, cerca di essere trasparente. Le dicono che è un orso perché tende a isolarsi. E non è poi così vero. A un aperitivo, che dura più di una cena, non dice di no. “A Verona esco volentieri, anche se la solitudine la cerco sempre”.
PAURE E SOGNI. In aereo smette di parlare e di ascoltare: ha paura di volare. Solo musica e lettura, aspettando che passi in fretta. “E’ stata dura fare avanti e indietro dalla Sardegna. I viaggi brevi sono peggio di quelli lunghi. Riesco a guardare giù però, anzi mi piace. in realtà volare mi dà una scarica di adrenalina". L’altra paura è quella degli squali. Lo dice e ride. “Amo il mare, è la mia vacanza preferita. Libro, sole, bagno, ozio. Ho provato a fare wind surf ma ho lasciato perdere. E no, sott’acqua non vado, ho paura degli squali”.
Sogna un viaggio in Giappone, adora quel popolo e la sua cucina, ha fatto anche un corso di sushi. La maternità è un tema complesso. “Ci pensavo più prima, adesso non so. I bambini mi piacciono, ma i figli sono un impegno grandissimo. Vedo i ragazzi di adesso mi sembrano arroganti, maleducati e senza rispetto, ma tutto sommato alla fine credo che siano solo fragili”. Più che di figli ha voglia di famiglia, non è fidanzata ma come dice “sono innamorata di un sacco di persone”. Bello vero? L’amore riempie e dall’amore non si fugge. “Mai fuggire, meglio soffrire per amore ma provare. La fuga è invece solo sofferenza”.
La stagione finisce qua. Silvia andrà due giorni in ospedale a fare la terapia che ha rinviato per non smettere di giocare. A Verona vuole restare “e contribuire nel pieno delle mie forze”. Il cerchio va chiudendosi e come magia restituisce quello che sembra solo apparentemente tolto. "Credo che alla fine sia tutto utile per ristabilire la scala dei valori. C'è chi sta peggio di me ma affronta meglio le cose di come ho fatto io. E' dura, si deve avere il coraggio di cambiare senza farsi trasformare. Purtroppo si perde il controllo di sé. A me faceva impazzire l'idea che non fossi io a decidere delle mie cose: è una lotta contro se stessi. Spero di poter tornare a essere com'ero. Ho sbattuto contro di me, ma non è finita". E già, perché la fine segna un nuovo inizio. “E io mi guardo e anche se non sono quella di sempre so che ho ricominciato”.