Manchester United, la magia del 7 si è fermata a Ronaldo

Da George Best a Bryan Robson, da Cantona a Beckham fino ad arrivare all’asso portoghese, la maglia numero sette dei Red Devils è sempre stata indossata da interpreti di grandezza assoluta. Dopo l’addio di CR7, però, la tradizione sembra essersi interrotta
Manchester United, la magia del 7 si è fermata a Ronaldo
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C’era un tempo in cui le maglie delle squadre di calcio non sembravano i numeri della tombola di Natale. Un tempo in cui quelle che ad ogni partita venivano assegnate a chi scendeva in campo dal primo minuto andavano rigorosamente dal numero uno, dato convenzionalmente al portiere, al numero undici. Maglie che, pur non avendo stampato sulla schiena il nome di chi le indossava, portavano con sé storia e significati che i bambini amanti del pallone si facevano raccontare da parenti adulti e amici più istruiti. Una di quelle il cui racconto non lasciava spazio alle interpretazioni era la numero sette: che cadesse sulle spalle di uomini minuti e veloci o di talentuosi calciatori vocati al dribbling e alla giocata estrosa, quella maglia veniva sempre data all’ala destra, ruolo oggi scomparso dagli schemi applicati dagli allenatori, che un tempo catalizzava buona parte delle fantasie dei tifosi di ogni squadra.
A Manchester, sponda United, il numero sette ha avuto interpreti che a ragione avrebbero potuto chiederne la stampa in oro sulla maglia. Spesso personaggi, non soltanto calciatori, capaci per talento e originalità di stare sotto i riflettori della celebrità anche oltre il novantesimo minuto.

IL GIOCATORE DEL SECOLO. Uomini talvolta inquieti come Eric Cantona, numero sette dei Red Devils tra il 1992 e il 1997, nazionale francese, vincitore di quattro campionati, due Coppe d’Inghilterra e tre Charity Shield con la squadra di Sir Alex Ferguson. Celebrato dai suoi tifosi nel 2001 come il giocatore del secolo dei rossi di Manchester e ugualmente ricordato per il calcio sferrato ad uno spettatore del Crystal Palace in modalità arti marziali il 25 gennaio 1995 che gli costò una lunga squalifica. Trascinatore, fisicamente forte, tecnicamente dotato, efficace sotto porta: una sintesi del Cantona calciatore alla quale andava integrata la sua leadership naturale, ribelle e fuori dalle regole come lo erano stati i suoi nonni, oppositori del regime franchista costretti a rifugiarsi a Marsiglia per non piegarsi ai soprusi della dittatura.

IL PRIMO 7. Dentro le regole ci era stato ben poco il primo campionissimo che aveva cominciato a costruire l’alone del mito intorno alla maglia numero sette dello United. Lui aveva cominciato ad unire al calcio gli echi pop della società britannica degli anni Sessanta. Ed era lui che aveva contribuito in modo determinante a portare all’Old Trafford la prima Coppa dei Campioni, successo immortalato dalla vivida narrazione dello scrittore irlandese Roddy Doyle nel romanzo Paddy Clarke ah ah ah! nel momento in cui quel numero sette insacca alla spalle del portiere del Benfica il gol che porta in vantaggio i Red Devils nei supplementari. Lui era George Best, fuoriclasse alla cui memoria è dedicato oggi l’aeroporto della sua città natale, Belfast, dissipatore sconsiderato di un talento infinito che illuminò le scene del calcio europeo tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta. Tra i lustrini glamour e le avanguardie fashion di quel periodo, Best brillò lo spazio di poche, scintillanti stagioni, facendo impazzire, di gioia e di rabbia, compagni, avversari, allenatori e presidenti. Un’icona trasgressiva e rappresentativa che ha varcato il tempo stesso della sua vita.

LO SPICE BOY. Ugualmente portata verso il glamour ma con toni decisamente più patinati è stata la figura di David Beckham. Di una bellezza elegante e impeccabile anche a fine partita, fisicamente slanciato e di piedi finissimi, anche lo Spice Boy (soprannome dovuto al fatto di essere il marito di Victoria Adams, ex componente del gruppo musicale delle Spice Girls) fa parte a pieno diritto dei numeri sette d’oro del Manchester United. Nel decennio di militanza con i Diavoli Rossi (dalle giovanili nei primissimi anni novanta fino all’addio alla prima squadra, avvenuto nel 2003) Beckham ha contribuito significativamente alla vittoria di un numero impressionante di trofei: sei campionati, due Coppe d’Inghilterra, due Charity Shield, una Champions League e una Coppa Intercontinentale. Più continuo nel rendimento di Best senza riuscire a raggiungerne i picchi espressivi, più capace a volgere a suo beneficio le sirene incantatrici dello show business, Beckham ha interpretato il ruolo con accenti più marcatamente votati all’organizzazione della manovra che non alla giocata personale, rappresentando una sorta di regista esterno piuttosto che un’ala pura. Dalla fascia dove prendeva posizione nascevano suggerimenti e idee per i compagni avanzati che trovavano frequentemente espressione in cross affilati e lanci illuminanti decisivi nel tagliare le possibilità di intervento efficace delle difese avversarie. Anche lui, come il suo illustre predecessore nordirlandese, smise di giocare negli Stati Uniti.

BRYAN ROBSON. Tredici anni di militanza, 345 partite, settantaquattro gol e trofei sparsi con quel sette attaccato alla schiena (tra cui due campionati e quattro Coppe d’Inghilterra) valgono a Bryan Robson un encomio d’obbligo: un giocatore che ha raccolto meno notorietà rispetto ai precedenti menzionati. Meno talentuoso di loro ma con una maggior presenza fisica, dinamico e tatticamente indispensabile alla squadra, capitano dotato di una personalità capace di esaltarsi nei momenti topici, Robson ha aiutato Alex Ferguson nei suoi primi anni di panchina a costruire una squadra in grado di recitare al meglio nel Teatro dei Sogni. Quando la sua esperienza nello United stava per finire, riuscì a coronare un sogno che all’Old Trafford non si realizzava da ventisei anni: vincere la Premier. L’importanza di quel successo la dettero le parole dello stesso Bryan, che definì quel lungo digiuno come “un albatros avvinghiato al nostro collo”.

CR 7. Difficile abbinare il concetto di digiuno di successi per l’ultimo, grande numero sette avuto dai Red Devils: si può immaginare scarna la bacheca del Manchester United nel periodo 2003-2009, quando quella maglia cadeva sulle spalle di Cristiano Ronaldo? Domanda retorica. Tralasciando i “dettagli” (Premier League e coppe nazionali assortite), basti ricordare che con CR7 i ragazzi di Ferguson vinsero la loro terza, e ad oggi ultima, Champions League. Indulgere nella narrazione riguardo al campione che, con Di Stefano, Pelè, Maradona e Messi si contende il trono del migliore di sempre, sarebbe un mero esercizio retorico, vista anche la sua contemporaneità. Balza all’occhio, piuttosto, il lungo tempo (ormai dieci anni, quelli trascorsi dal trasferimento a Madrid dell’asso portoghese ad oggi) che la jersey numero sette dello United non vanta un titolare degno dei suoi predecessori. Già, perché dopo l’addio di CR7 sono diversi i giocatori, campioni di prospettiva o presunti tali, che hanno indossato quella maglietta senza riuscire a onorarla a dovere: da Michael Owen a Valencia, da Di Maria a Depay fino ad arrivare al Niño Maravilla Alexis Sanchez, arrivato a Manchester dopo splendide stagioni disputate tra Barcellona e Arsenal e improvvisamente impantanatosi in un rendimento da bidone del calciomercato. Come se Cristiano Ronaldo, impossibilitato a cancellare i ricordi del passato, avesse voluto fermare su se stesso la leggenda della maglia numero sette del glorioso Man United.


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