Argentina-Olanda, una finale che regalò felicità a un intero Paese

Il 25 giugno 1978 l’Albiceleste vinceva il suo primo titolo mondiale allo stadio Monumental di Buenos Aires. La gioia per quella vittoria donò a tutta la nazione un momento di esaltazione collettiva atteso dal 1930
Argentina-Olanda, una finale che regalò felicità a un intero Paese
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Per vincere la sua prima coppa del mondo, l’Argentina dovette aspettare 48 anni. Tanti furono quelli che trascorsero tra il 30 luglio 1930, giorno della finale del primo mondiale che l’Albiceleste perse 4-2 a Montevideo contro l’Uruguay, e il 25 giugno 1978, una domenica d’inverno australe che regalò al popolo argentino l’esaltazione di una felicità mai provata prima. Nel 1930 da Buenos Aires migliaia di persone avevano preso d’assalto i piroscafi che portavano a Montevideo per poter sostenere i propri calciatori; quella fresca serata di giugno del 1978 erano quasi 72.000 gli spettatori che gremivano gli spalti dello stadio Monumental della capitale argentina, fiduciosi di poter assistere alla prima vittoria planetaria della propria nazionale. Che il clima sugli spalti fosse caldissimo lo capiva anche chi non era allo stadio: tutti i telespettatori collegati videro il lancio forsennato di coriandoli, frammenti di fogli e rotoli di carta riempire non solo la pista di atletica ma anche il terreno di gioco. Mai prima di allora una finale della coppa del mondo era stata disputata su un prato così tappezzato, né quella circostanza si ripeté successivamente: un unicum che chi ebbe modo di assistere a quella partita ricorda vividamente. L’ultimo ostacolo che si frapponeva tra l’Albiceleste e la vittoria era l’Olanda. Strano e complicato il destino degli Oranje che, come già quattro anni prima, si trovavano a dover affrontare ancora i padroni di casa nell’ultimo passaggio che li separava dalla coppa. Era un’ottima selezione quella guidata da Ernst Happel, seppur priva del suo miglior elemento: Johan Cruijff a quel Mondiale aveva deciso di non partecipare, mosso dai timori per l’incolumità della sua famiglia (che poco tempo prima era stata vittima di un tentato rapimento) e dalla conseguente carenza di stimoli massimali necessari ad affrontare una manifestazione di quella portata.

Una pennellata d’azzurro

Un po’ di Italia era presente anche su quel campo imbiancato dai papelitos. A dirigere l’incontro, infatti, fu nominato l’arbitro Sergio Gonella, chiamato a un lavoro durissimo sin da prima dell’inizio della partita, quando gli argentini, probabilmente per mettere pressione agli avversari, contestarono l’ampia fasciatura portata al polso da Renè van de Kerkhof. Gonella la fece ridurre ma da quel momento gli olandesi cominciarono a criticare l’operato dell’arbitro italiano, a loro dire troppo indulgente con i padroni di casa. 

Tempi regolamentari 

La partita ebbe alfine inizio. Squadre guardinghe, ruvide, lavorarono di piedi e di gomiti per prendere il sopravvento. Il risultato si sbloccò al 38° del primo tempo grazie a una percussione di Mario Kempes, unico giocatore di una Seleccion per il resto autarchica a giocare all’estero. Nelle turbolenze di un gioco duro e reciprocamente intimidatorio, appariva difficile immaginare che l’Olanda potesse recuperare. Invece se gli orfani di Cruijff non vinsero clamorosamente quella coppa lo si dovette solo alle attenzioni del fato, che proprio all’ultimo minuto indirizzò sul palo un tiro di Rensenbrink dopo che, otto minuti prima, il subentrato Nanninga era riuscito a portare i suoi compagni al pareggio.

Tempi supplementari

Tempi supplementari, stanchezza, tensione. Al 105’ toccò ancora a lui, El Matador del Valencia, portare avanti l’Albiceleste col sesto gol personale, quello che gli consentì di aggiudicarsi il titolo di capocannoniere. Il sigillo al risultato arrivò dal mondo onirico di Daniel Bertoni che, come dichiarato qualche settimana prima dell’inizio del Mondiale, aveva sognato di siglare il gol della vittoria nella finale. Visione che divenne realtà a cinque minuti dalla chiusura di un campionato che era riuscito, nei minuti di gioco delle partite della nazionale argentina, a interrompere i contrasti tra governo e oppositori e le torture che si tenevano anche nella Escuela de Mecanica de la Armada, distante dallo stadio Monumental solo poche centinaia di metri. Vittime e carnefici per pochi minuti percorsero il sentiero della pace tracciato da una nazionale ai cui calciatori il tecnico Menotti aveva chiesto di giocare senza pensare alla politica ma solo per dare felicità alla gente.

Kempes e quell’amore non corrisposto per 28 anni

Alla cerimonia di premiazione la figura più rappresentativa di quella squadra, Mario Kempes, non strinse la mano al generale Videla. L’episodio, per molto tempo, fu interpretato come un implicito segno di mancato allineamento verso il regime da parte del Matador. Nella sua autobiografia Kempes spiega quell’episodio sottraendogli qualsiasi riflesso eroico, riconducendolo a una semplice questione logistica: essendo rientrato in campo per la premiazione tra gli ultimi, Mario era rimasto lontano da Passarella e gli altri compagni più vicini al dittatore e non aveva avuto spazio né modo per esplicitare un saluto. Tanto che, prosegue nella spiegazione, quella coppa Kempes riuscì ad averla a portata di mano solo nel 2006 a Parigi quando venne esposta in occasione della finale di Champions League, ponendo così fine a una sorta di amore non corrisposto durato 28 anni. Una ricostruzione che cancella i dubbi legati a un episodio che i romantici del calcio avrebbero preferito cullare tra le braccia di un idealismo difficile da praticare. Episodio casuale che concluse un Mondiale vissuto da Menotti e i suoi ragazzi sul principio della separazione tra sport e politica che, seppur carente di fascino, può consentire al calcio di sopravvivere a interessi che dovrebbero rimanergli estranei.


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