Ruggiero Rizzitelli: «Quella Roma una squadra incredibile» VIDEO

Nell'intervista esclusiva, l'ex bomber giallorosso racconta i suoi ricordi della Coppa Uefa 1992-93, nella sua memoria anche Mihajlovic, «Si presentò dicendo: “Ogni due punizioni segno un gol”»
Ruggiero Rizzitelli: «Quella Roma una squadra incredibile» VIDEO
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ROMA - Ruggiero Rizzitelli fu uno dei protagonisti del 3-0 col quale la Roma si sbarazzò del Grasshoppers nella partita di andata dei sedicesimi di finale di Coppa Uefa del 1992-93. Lo abbiamo intervistato per parlare di quel match e dell’esperienza che visse coi giallorossi in quegli anni. 

Ruggiero, il 21 ottobre 1992 la Roma vinse 3-0 contro il Grasshoppers. Tu segnasti il secondo gol: te lo ricordi?

«Ci fu un cross di Haessler dalla destra: io entrai in scivolata in mezzo all’area e anticipai il portiere. Fu una bella partita anche se fu espulso Carnevale per una sciocchezza. Nonostante fossimo in dieci dopo trentacinque minuti, vincemmo 3-0. Un bel ricordo perchè vincere in inferiorità numerica non è mai facile. Al ritorno perdemmo 4-3 in una partita nella quale mi arrabbiai molto: eravamo sotto 4-2 e alla fine riuscii a segnare il 4-3, il mio secondo gol in quel match». 

Nell’estate del 1992 la Roma venne rinnovata: che atmosfera si respirava a Trigoria in quel periodo? 

«Dopo due anni con Ottavio Bianchi arrivarono Boskov e dei nuovi giocatori. Quell’anno, però, partimmo male perdendo la prima in casa contro il Pescara. Ci riprendemmo a metà campionato e arrivammo anche in finale di Coppa Italia dopo aver superato il Milan». 

Tra gli altri in quella stagione arrivarono a Roma sia Caniggia che Mihajlovic.
«Caniggia si sapeva bene chi fosse perché era già da un po’ in Italia, Mihajovic no. L’avevo visto giocare solo all’estero, in particolare nella finale di Coppa dei Campioni disputata a Bari nel 1991. Boskov ne parlava molto bene. E devo dire che con quel piedino faceva davvero paura. Sinisa si era presentato dicendo: ”Io ogni due punizioni faccio un gol”. Solo che con la Roma, purtroppo, non riuscì a farlo mentre mantenne fede alla sua parola quando andò nelle altre squadre. Forse non si era ancora ambientato, forse i palloni di Roma, non lo so (ride, ndr). Caniggia era un giocatore prendere o lasciare: era fatto così, viveva nel suo mondo particolare. Anche quando stava in campo non sapevi dove avesse la testa. Era un grandissimo talento: il classico calciatore che, se era in giornata, faceva la differenza. Ma quando aveva la testa altrove dovevi scuoterlo, gli dovevi dire:”Ahò, stai a giocà: sveglia!”». 

Quell’anno vennero ceduti sia Voeller che Nela. Perché? 

«Furono scelte societarie. Del resto, dopo tanti anni, anche Rudy credo che volesse cambiare. Per Sebino mi dispiacque moltissimo perché lui, pur di restare a Roma, si sarebbe tagliato una gamba. Purtroppo non rientrava più nei piani della società e del tecnico». 

Che tipo di allenatore era Boskov?
«Ricordo che negli spogliatoi diceva sempre: “Dai, dai che vinciamo scudetto!” Erano incredibili l’energia e l’entusiasmo che ci trasmetteva, anche quando le cose non andavano bene. Quell’anno in campionato partimmo male ma lui continuava a dirci che eravamo superiori agli avversari, tanto che, a volte, a noi veniva da ridere visti i risultati. E allo stesso tempo pensavamo: se ci crede lui, perché non dobbiamo crederci noi? Per questo era fantastico: dava sempre degli stimoli pazzeschi a tutti». 

Alla presidenza c’era Ciarrapico. Era un uomo di calcio? Oppure aveva preso la Roma per rispondere alle richieste della politica? 

«La seconda che hai detto. Però devo anche dirti che, col tempo, Ciarrapico della Roma si appassionò veramente: entrato nel ruolo di presidente alla fine era diventato una “belva”. Ricordo che si presentò in pigiama nello spogliatoio dopo la vittoria col Milan anche se era in ospedale: una cosa fantastica. Noi non ci credevamo, pensavamo che fosse impazzito. Pensa a che punto era arrivato: è una cosa bellissima da raccontare, per far capire a cosa può portare la passione per la Roma. Ti prende in modo viscerale». 

Anche quell’anno, come del resto due stagioni prima, andaste meglio nelle Coppe che in campionato. Come te lo spieghi? 

«Noi col primo anno di Bianchi avevamo fatto esperienza: ci abituammo a giocare all’estero, che è totalmente diverso rispetto all’Italia. Quella squadra veniva da una finale di Coppa Uefa: era abituata a giocare su certi campi, sapeva come muoversi. Eravamo una compagine che, ovunque andasse in Europa, se la giocava alla pari anche con i più forti». 

Nei quarti di quella Coppa Uefa veniste eliminati per un solo gol dal Borussia Dortmund, che poi arrivò in finale perdendo con la Juventus. Pensi che avreste potuto giocare meglio quel doppio confronto oppure i tedeschi erano davvero più forti? 

«Certamente quel Borussia non era forte come quello di adesso. Era una buona squadra in Germania ma non era come oggi che lotta ogni anno per vincere il campionato. Noi potevamo e dovevamo fare meglio, soprattutto dopo aver vinto 1-0 all’andata».
Nella Roma hai giocato con Liedholm, Radice, Bianchi, Boskov e Mazzone. Qual è, di queste, la squadra che ricordi con maggiore affetto? 

«Sicuramente quella del primo anno con Bianchi: facemmo una cavalcata incredibile. Il mister arrivò dopo che Radice aveva fatto con noi una stagione strepitosa al Flaminio: venne a Roma per vincere. Con lui si passava dal concetto di far divertire a quello di dover vincere. Sapevamo che fosse un po’ burbero, che non guardava in faccia nessuno: per lui contavano i fatti. Odiava il tacco e punta: voleva vincere perché a Roma era venuto per quello». 


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