Grave, non Gravina

Grave, non Gravina© ANSA
Ivan Zazzaroni
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Narrano che nella storia moderna della Federcalcio un solo presidente fosse restio a occupare la poltrona di via Allegri, Artemio Franchi: preferiva starsene nel suo ufficio alla periferia di Firenze. Governò una decina d’anni, in due fasi, stagioni memorabili, tanto nel male quanto nel bene. Se lo portò via il destino nell’83 , mentre era attivissimo per ciò che gli stava realmente a cuore, il Palio di Siena. Per quel che lo conosco, Gabriele Gravina è un altro che la colla sulla poltrona di via Allegri non ce la mette, anche se avrebbe il diritto di godersi la vittoria del titolo europeo talmente atteso e celebrato da valere quasi quanto i Mondiali dell’82 e del 2006. Innanzitutto perché l’Europa calcistica ha assunto una sua dimensione particolare, totale, visto che “contiene” la Russia (attualmente sospesa) e che il titolo l’abbiamo conquistato a spese dell’Inghilterra, fresca protagonista della Brexit.
Gravina ha legittimamente beneficiato dell’effetto Europa, ma non s’è dato alla pazza gioia, ha lasciato che l’ebbrezza del successo rincuorasse Mancini e i suoi ragazzi dopo l’umiliante assenza da Russia 2018 e ha continuato a gestire la normale amministrazione della Federcalcio che in realtà l’ha sottoposto a continui straordinari impegni. È pleonastica la ricostruzione delle beghe delle Leghe e tuttavia queste sono oggi tutte attive e costruttive, compresa la Dilettanti appena affidata a Giancarlo Abete, nomina che dice di una ritrovata intesa politica al vertice del nostro calcio.
È possibile che tutto questo possa essere messo in discussione da Italia- Macedonia del Nord o - tocchiamoci - da un’infausta esclusione da Qatar ’22? Certo, c’è sempre chi è pronto a provocare sommovimenti, a improvvisarsi tagliatore di teste, ma designare Gravina, come Mancini, a vittime di un dramma provocato da un paio di rigori sbagliati vorrebbe dire che il tafazzismo cancellato dalla nuova federazione sta per riprendere il sopravvento. Proprio quando Gravina è chiamato ad affrontare una necessaria e legittima riforma che non è promossa da eventi traumatici, bensì da logici aggiornamenti.
Ora, dubito che Mancini resterebbe al suo posto nel caso in cui fossimo eliminati: conoscendolo da 40 anni, avendone misurato a più riprese l’orgoglio, e sapendo anche che non resisterebbe lontano da un club fino al 2024, la prossima scadenza europea, immagino che si dimetterebbe. Una scelta che capirei, in linea con l’uomo.
Diverso è il discorso che riguarda il presidente federale: dietro di lui c’è il nulla (solo dei perdenti) ; davanti, il completamento dell’ultimo mandato durante il quale ha intenzione di cambiare il percorso del nostro calcio dribblando ostacoli, eventuali sconfitte e avversari. L a speranza è che riesca a realizzare quello che ha in testa da anni.
Il calcio italiano deve a Gravina, oltre all’Europeo, la sopravvivenza al Covid (la Lega di A lottò con tutte le forze per non portare a termine il campionato) e la regolare (ma sì) conclusione del torneo vinto dall’Inter di Conte che, se il presidente non fosse intervenuto sfruttando una legge dello Stato, sarebbe stato chiuso da dodici, tredici società , non da venti. In altre parole, se siamo ancora qui a giocarci il passaggio al Mondiale lo dobbiamo anche a lui.


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