Gli armatissimi opinionisti tirati in ballo per il “caso Camerun” avevano già anticipato Beha nel primo match, Italia-Polonia, partita subito indiziata di biscotto perché avremmo avuto come oppositore il grande Boniek, juventino come trequarti del Club Italia. Si andava avanti così, con i critici già “fotografati” in America nel ‘76 e a Mar del Plata nel ‘78: amarissimi sempre, felici (ma non lo furono fino in fondo) quando l’Italia perdeva o rischiava di perdere. Eppure, furono proprio le difficoltá a dare forza all’Italia, agli italiani. Me l’aveva detto anni prima il grande Vittorio Pozzo, l’unico tecnico vincitore di due mondiali consecutivi (‘34 e ‘38) con la stessa squadra: «Abbiamo il vezzo di parlar male di noi per crearci ostacoli da superare per poi dirci grandi. Ma guai se sono gli altri, gli stranieri, a parlar male di noi…».
Dopo Italia-Brasile incontrai nel mio hotel, a Barcellona, un collega brasiliano che s’era fatto la stessa idea: «Siete stati bravissimi - mi disse, avvelenato - avete parlato tanto male dell’Italia e noi ci siamo caduti, vi credevamo deboli, oggi avete battuto il Brasile. Bugiardi italiani». Quante cose si possono fare con le parole. Il mitico Biscardi, acceso nemico di Bearzot, a Mondiale conquistato disse serafico: «È stata la nostra straordinaria opposizione a dar forza all’Italia. Il Mondiale lo abbiamo vinto tutti». E il carro dei vincitori diventò un treno.
Qualcuno che capisse di calcio come piaceva a me - prima il cuore e la mente, poi i piedi - al Mundial c’era. E mi piace parlare di uno straniero, un giornalista ungherese, Vandor Kalman, chiamato “il canzoniere” perché nel 1958 aveva avuto l’incarico di tradurre nella sua lingua “Volare - Nel blu dipinto di blu” ed era diventato famoso come Modugno e Migliacci, il paroliere nostrano. Da tempo era il mio corrispondente dall’Est e avevamo già vissuto insieme i Giochi di Mosca ’80, dove tutti - in particolare i furbastri georgiani - gli aprivano tutte le porte, dal mangiare all’amore. Venne a trovarmi in albergo, a Barcellona, per chiedermi un favore. Sapeva della mia amicizia con Bearzot, della mia passione per la Nazionale, della mia amicizia con gli azzurri che avevo difeso quando i politici avevano chiesto - in Parlamento! - di riportarli a casa. Alla Casa del Barón un giorno incontrai anche le mogli (non ancora wags) portate dal dirigente Abaticola in visita che mi abbracciarono per avere difeso i mariti e i compagni (l’Avvocato Sergio Campana dell’Aic mi diede anche un premio).
E allora, Vandor? «C’è qui con me un collega della tv ungherese che vuole fare uno scoop… Parlare con Paolo Rossi. Mi aiuti?». Parlai col Vecio - «Bisogna sentire Vantaggiato» - parlai con Guido: «Credo che non ci siano problemi. Non è un giornalista italiano, e Cucci stia zitto…». Andarono a cercare Paolino mentre il collega tirava fuori la telecamera, il treppiede, e istruiva l’interprete Vandor. Arrivò, il mio campione “pallido e assorto” ma mi accorsi subito che senza spavalderia aveva una cert’aria sicura, novità assoluta. Mi misi dietro la telecamera, lo sentii rispondere a tono a tutte le domande, comprese quelle sulla crisi e le polemiche. Finita l’intervista lo salutai con un mezzo abbraccio. Forza Paolo. Scrissi - pensando ai colleghi - una cosa un po’ banale e un po’ stronza senza riferire sue parole, non potevo: «Ho guardato Paolo Rossi negli occhi, li ho visti accesi, sorridenti. Ha ragione Bearzot, sta bene, è pronto!». Sono ancora emozionato, quando penso a quel giorno, alla vigilia di Italia-Brasile.
Paolino non c’è più, mi manca, è ingiusto averlo perduto, non essere qui con lui, adesso, a ricordare quei tre gol, quella festa, quella clamorosa resurrezione. Mentre rimugino in un passato che non so se degno di essere sepolto nella memoria inutile o talmente “storico” e incancellabile come pretende oggi tanto rumore mediatico, mi sovviene un dettaglio banale: se ben ricordo non c’è stato un decennale, un ventennale, un trentennale di questo Mundial, mi vien voglia di dare il merito - o la colpa - a Piero Trellini e alla sua “Partita” di successo ma la verità è un’altra: le improvvise rievocazioni - la mia compresa - sono dedicate all’assenza dolorosa del Protagonista, al mio Paolino diventato Pablito. Tutto per lui, il memorabile, con una tristezza che diventa sorriso. “Eroici” - scrisse Tosatti, per tutti, a partire da Zoff. Oggi il mio eroe è lui, Paolo Rossi.
Sull’82 ho scritto pagine e pagine ma mi piace ricordare le parole di un altro, di un amico grande scrittore traviato dai disfattisti, Oreste del Buono, che confessò: «Io, inviato in Spagna senza intuire nulla. Essendo un emotivo psicolabile, un viscerale impunito, ma essendo pure uno scribacchino, un imbrattacarte, un mangiapane a tradimento, ho avuto in questo Mundial 1982 ogni occasione per smentirmi sinceramente (…) Insomma, Bearzot l’ha avuta vinta con Rossi come l’ha avuta vinta con tutti gli altri, dall’intramontabile Zoff, che ha fatto le più belle parate della sua vita, all’indomabile Conti, che ha furoreggiato da brasiliano all’attacco ma ancora più ha reso in difesa, al tenace Oriali che ha combattuto oltre le sue forze, all’olimpico Scirea, gran difensore dell’”area de castigo”, propria, ma anche fluidificante insidioso nell’”area de castigo” altrui. Al coraggioso Graziani, che s’è rotto due volte nel generoso tentativo di coprire contemporaneamente cinque ruoli d’attacco, al novizio Bergomi, entrato a far bravamente la sua parte con consapevolezza di veterano, eccetera. Bearzot non ha sbagliato un nome, una marcatura, una mossa… Smetto, è la notte di un vero trionfo nazionale. In Italia, mi dicono, sta avvenendo qualcosa che rassomiglia a tutte le feste nazionali messe insieme, il 24 maggio, il 28 ottobre, il 25 luglio, il 25 aprile e così via, poi domani ci sveglieremo da questo sogno vero davanti a una realtà anzi un’irrealtà di merda. Non abbiamo una lira. Pazienza, facciamo durare questa notte. Non dovrebbe passare mai…». Onesto del Buono.
«Resta la famosa parata di Zoff sulla linea di porta - scrisse il Guerin in una rievocazione - quella al novantesimo su colpo di testa di Oscar, decisiva. Il “nostro” Mondiale avrebbe dovuto essere Argentina 1978, mentre se esistesse un dio del calcio quello del 1982 sarebbe dovuto essere della meravigliosa squadra di Telé Santana…». Mi concessi, dopo una breve festa azzurra, un’interpretazione personale: di quei bravi noi avevamo italianizzato Falcao che alla romana, invece di accettare il pareggio 2-2 che voleva dire per loro qualificazione (5′ Rossi, 12′ Socrates, 25′ Rossi, 68′ Falcao) invitò i suoi all’assalto per vincere. E al 74′ - 3-2 - Paolo Rossi diventò Pablito.