Italia, e poi arriva il campo

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Italia, e poi arriva il campo© LAPRESSE
Ivan Zazzaroni
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Possono bastare 97 minuti francamente tristi in Macedonia del Nord per spegnere tutto l’entusiasmo, tutta l’energia positiva prodotta da un cambiamento mai così gradito agli italiani? Possono, ma non dovrebbero, non devono. Il calcio è una bugia, mi ricorda spesso Ancelotti. Nel nostro caso si dimostra fin troppo sincero consegnandoci ripetutamente le verità più amare. Anche a Skopje la Nazionale, in particolare quella del secondo tempo - ma anche nel primo non ha fatto cose segnalabili - è stata l’espressione di un sistema in crisi volontaria, dal momento che non riesce ad andare oltre le parole e i buoni propositi generati dalla delusione della sconfitta. Da tempo non riusciamo a presentare una squadra in grado di mostrare la propria superiorità: qualsiasi avversario, perfino il più debole, ci complica la partita e l’esistenza. Per dire, il macedone Ashkovski è attualmente senza squadra: si allena da solo ed è riuscito a giocare 70 minuti. Al suo posto è entrato Dimoski che fino all’anno scorso era a Strumica ed è stato venduto per la bellezza di 70mila euro. Dico subito che non mi è piaciuto nessuno degli azzurri. Proprio come nelle uscite più recenti, al di là del terzo posto ottenuto con le unghie nella Nations League. Abbiamo avuto la conferma che il lavoro di Spalletti sarà durissimo, dovendo fare con quel poco che la serie A è in grado di offrirgli. Mi ha fatto uno strano effetto sentir ripetere più e più volte «Mancini» da Rimedio (Alberto, Raiuno) nella partita in cui avevamo il dovere - e troppi il piacere - di mettere da parte quel cognome, quell’ultimo, insopportabile periodo. Ma Mancini era ovunque ieri sera, al di là dei facili confronti a distanza tra le due gestioni: in difesa, in costruzione quando si doveva sostituire a Cristante controllato a uomo da Bardhi, nella ricezione delle palle inattive e anche nel gioco. Quasi uno scherzo involontario di Spalletti, all’esordio nella nuova veste, dal quale non potevamo pretendere miracoli: ha avuto meno di una settimana di tempo per metterci del suo. Troppo poco: non a caso ha investito intelligentemente sulle motivazioni individuali e collettive (la fascia di capitano a Immobile, il senso più profondo dell’azzurro) e su concetti quali l’interpretazione del ruolo a prescindere dal disegno: tre dei quattro difensori della formazione iniziale giocano abitualmente a tre (Mancini, Bastoni e Dimarco, che di solito fa il quinto). Proprio Mancini è uscito per primo e definitivamente (dalle nostre orecchie) dopo un’ora. Per infortunio. L’ha sostituito Scalvini, altro difensore solitamente impiegato nella linea a tre. Poco prima era entrato Zaniolo: anche Nicolò da una parte e Zaccagni dall’altra mi hanno riportato al Mancio, alla rigida presa di posizione dell’ex ct nei loro confronti. L’impegno dei nostri non è mancato, le gambe hanno fatto il loro dovere, i piedi e la testa un po’ meno. Per prendere il secondo posto e la qualificazione servirà molto altro.
PS. Mancini era anche nello spot dell’energia verde trasmessa all’intervallo.


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