Il complesso di inferiorità

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Il complesso di inferiorità© LAPRESSE
Alessandro Barbano
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Tu ce l’hai Bellingham, Kane e Rashford? E allora che vai trovando? Sono i fuoriclasse a fare la differenza nella quarta vittoria consecutiva dell’Inghilterra contro l’Italia, una squadra a cui Spalletti ha dato ordine e applicazione, ma non ancora la forza visionaria che può trasformare discreti talenti in fuoriclasse. È lui stesso a spiegarlo, nel dopo partita, quando dice: «Abbiamo subìto talvolta la forza fisica, tal’altra l’anticipazione delle idee, cioè la capacità di riuscire a vedere il contrario di ciò che appare, vedere oltre il primo passaggio». Ha ragione da vendere. È Berardi l’unico che vede il contrario di ciò che appare, quando stoppa male la palla e senza pensarci due volte inventa un corridoio per Di Lorenzo, che fa niente di più di quello che deve fare un buon terzino, tagliarla in mezzo, trovando Scamacca che fa niente di più di ciò che deve fare un buon attaccante, metterla dentro. Ma il gol è virtualmente suo, di Berardi, perché questa è l’Italia che vorrebbe Spalletti. Quella che vede oltre il primo passaggio. E che ancora non c’è.

Perché quella che torna a Wembley è timorosa, sente di giocare contro un avversario più forte, rinuncia a passare tra le linee, tenta poche sovrapposizioni e ancora meno uno contro uno. Il suo complesso di inferiorità cresce come una zavorra pesante a mano a mano che gli inglesi iniziano ad affondare i loro colpi. Si può prendere un rigore a Wembley, e si può anche subire il raddoppio, se lo propizia il divino palleggio di Bellingham. Si può perfino perdere, se però sei in grado di giocare all’assedio l’ultima mezz’ora. Non è accaduto all’Italia, che si è spenta come fa una candela consunta. Un mesto finale toglie smalto a tutto ciò che di buono si è visto nel primo tempo e nell’inizio del secondo. Si chiama resa. Certo, l’arbitro ci ha messo del suo. Perché la mancata espulsione di Phillips è un regalo agli inglesi troppo smaccato per non dubitare della buona fede. Trenta minuti in undici contro dieci sarebbero potuti finire diversamente. Ma il futuro sta stretto in un condizionale passato. O in un alibi. Il divario con le big d’Europa e del mondo è insormontabile. Perché l’Italia non è più l’Italia, non solo dove non nasce più un Baggio, un Vialli, un Totti, un Vieri.

Ma perfino nella sua storica roccaforte tattica, l’impenetrabilità difensiva. Dove avevi il marcatore che ti anticipava o piuttosto ti aspettava, certo che poi sarebbe stato più lesto nell’intercettare il tiro. Non è più così. Anche il migliore degli azzurri, come Di Lorenzo, nulla può contro la rapidità di Rashford nello spostare il pallone e nel calciare a botta sicura. Anche perché il raddoppio della marcatura è una virtù dell’intesa tutta ancora da costruire. Così una saracinesca diventa un colabrodo. È strana la sorte, abbiamo perso una partita decisiva, eppure ci aspettano ancora due colpi in canna. Se vinciamo con la Macedonia, ci basterà il pari nello spareggio con l’Ucraina a Leverkusen. Se invece pareggiamo o perdiamo la prima, dobbiamo solo vincere l’ultima. Qui si varrà la “nobilitate” di Spalletti. Contro avversari normali, la motivazione e l’intelligenza tattica possono fare la differenza. C’è bisogno di tanta fiducia. Sperando che non siano le magistrature, ordinaria e sportiva, a fare la formazione. Un sistema che investe sulle scommesse di Stato non dovrebbe punire quelle clandestine con più di un’ammenda. Almeno fino a quando le puntate proibite s’indirizzano in campionati diversi dal nostro, e quindi non rappresentano un illecito sportivo. Ma c’è in giro un moralismo ipocrita che non mette di buon umore.


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