L'Argentina di Messi campione, il più favoloso atto di giustizia

L'Argentina di Messi campione, il più favoloso atto di giustizia© Getty Images
Ivan Zazzaroni
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Come molti peccati, anche Qatar 2022 ha ottenuto il perdono. Proprio all’ultimo, grazie alla più bella finale di questo secolo, atto conclusivo del più contestato, odioso eppure calcisticamente significativo Mondiale del Millennio. Significativo poiché ha consacrato la grandezza di Leo Messi, al quale mancava “soltanto” la coppa più prestigiosa (già una volta sfiorata) per poter accedere all’attico delle leggende occupato da Di Stefano, Pelé, Maradona e Cruijff. Certo, come si fa a raccontare ai pochi che non l’hanno vista cos’è stata Argentina-Francia? Non può bastare un altro “amici, cosa vi siete persi”. Servirebbe l’arte dei grandi scrittori (anche) di sport del passato: Buzzati, Arpino, Del Buono, Oriani, Mario Soldati. Ideale risulterebbe la poetica di Pasolini, la sua “scrittura zero”. La descrizione delle decine di emozioni fortissime e opposte che abbiamo provato nel giro di 140 minuti, tanto è durata la partita, è un esercizio riservato a pochi eletti. Rivederla ora, o più avanti, non produrrebbe gli stessi effetti sui nostri occhi, cuore e cervello. Ci siamo goduti un calcio sempre sopra le righe, di momenti disordinati, ma altissimi. Uno spettacolo fiabesco. Nel primo tempo l’Argentina ha stravinto nel gioco e nel punteggio. Poi, all’improvviso, è stata la Francia ad avvicinarsi al trionfo: dopo settanta minuti di solo Messi e profondo isolamento di Mbappé, il Ronaldo francese (Luis Nazàrio, non Cristiano) ha pensato bene di svegliarsi e in meno di cento secondi ne ha buttati dentro un paio. Oddio, Messi la perde di nuovo - abbiamo tutti pensato -, alla fine lo rivedremo fragile, terribilmente infelice e piangente. Superato in fretta lo shock, Leo si è riportato avanti e nel secondo supplementare ha trovato il guizzo del 3-2. Tutto finito di nuovo? Nient’affatto: Macron, che s’era tolto la giacca, stava per essere ridotto in mutande quando un altro rigore ha imposto la decisione dagli undici metri che sembravano cento. Una “locura”. Spettatori sfiniti, assai più dei giocatori delle due squadre che negli istanti finali hanno avuto la possibilità di portarla a casa ma fatto i conti con un miracolo per parte.

Una gioia anche per la Joya - Dybala c’ero anch’io -, la gloria sempiterna per Montiel e il più favoloso atto di giustizia sportiva si è così compiuto. In Qatar Messi, 35 anni e mezzo, è diventato Maradoha: ha ottenuto da Diego il permesso di sedere al suo fianco. Leo ha usato i tocchi più raffinati e impressionanti, mostrato gli occhi del fuoriclasse maturato anche attraverso il timore di una nuova disperazione, ha imparato a esprimere gioia con lo sguardo del leader. Ma quel che è più, è riuscito a vincere il confronto diretto con il suo giovane erede e compagno di club al quale neppure una tripletta è bastata. L’ottavo Pallone d’oro è prenotato: alzi la mano chi, anche se solo per un secondo, non ha immaginato lo sconforto del rivale di sempre dell’argentino, Ronaldo, questa volta Cristiano. Buenos Aires è impazzita e Napoli ha festeggiato come se avesse vinto l’Italia. Dalle parti del lungomare Caracciolo qualcuno ha ricordato cosa accadde un anno dopo l’ultimo successo dell’Argentina in un Mondiale. Era l’86, era la Selección di Diego, erano la mano di Dio e il piede di tutti i santi del calcio. Il più mancino. Stamane avrei certamente letto l’articolo di Mario Sconcerti, un poeta inconsapevole e un appassionato di sé che non aveva mai smesso di studiare per creare un altro stile, un altro modo. Mario se n’è andato spiazzando tutti e portandosi via l’originalità, la fantasia, i paradossi, la competenza, straordinari salti di tono e una quantità industriale di esperienze e conoscenze. È stato il mio direttore e un amico, di un’amicizia partita con dei vaffanculo e cresciuta nella stima e nel rispetto reciproco. Fino all’ultimo giorno. Probabilmente non mi avrebbe convinto, ma l’avrei apprezzato una volta di più.


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