Messi non può raggiungere Maradona

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Messi non può raggiungere Maradona© Getty Images
Alessandro Barbano
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Maradona no. A costo di zavorrare l’illusione che si alza sul mondiale qatariota, e farla precipitare come una bugia, si deve dirlo. Messi non può raggiungere Diego. Anche se vincesse il mondiale, anche se si sbarazzasse di Modric e poi di Mbappé o di Hakimi, da solo e all’età in cui si medita il ritiro, da solo come un Ulisse tra modesti gregari, anche se tutto questo accadesse tra oggi e domenica, Lionel potrebbe vedere Diego, forse toccarlo, ma non sostituirsi a lui. Il murale ricomparso in questi giorni a Baires, che lo ritrae come l’Adamo michelangiolesco proteso verso la mano de Dios sulla sommità della Cappella Sistina, rispetta le proporzioni dell’incontro tra il campione e il mito.

Le analogie non fanno la coincidenza, anche quando sono tante. L’Argentina che Messi guida è una squadra incompleta e senza fuoriclasse, come quella che nel 1986 Diego portò al trionfo. Solo Valdano aveva la dignità di fare da sponda al più grande calciatore di tutti i tempi. Gli altri erano portatori d’acqua che la spinta emotiva trasformò in fenomeni tanto inattesi quanto effimeri. Valse per l’onesto Burruchaga, che a cinque minuti dalla fine regalò con il gol la Coppa all’Albiceleste, e per i tanti che non si ricordano più, o si ricordano solo per la singolarità del cognome, come Olarticoechea. E vale oggi per la pattuglia di giovani talenti, tutti ancora da sbocciare, come Fernandez, Mac Allister e Alvarez, che circondano, come attente badanti, le passeggiate in campo della pulce, distratto e svogliato quanto sa essere l’inganno di un supereroe pronto a sorprendere con i suoi guizzi imprendibili.

Messi è, quanto Diego, un moltiplicatore di valore. Quello che tocca, s’accende. Con assist alla cieca, come sul primo gol di Argentina-Olanda, servito a Molina sul piatto d’argento. O con gli occhi di tigre che incantano il portiere orange sul primo dei rigori-spareggio, tirato portando sulle spalle una responsabilità che altri avrebbe schiantato. La maturità ha archiviato l’irrisolutezza che ha afflitto la pulce in tutta la sua avventura albiceleste. Lo vedi dall’apparente indifferenza emotiva con cui ha reagito in questo Mondiale alla paura di perdere e di tornare a casa come uno sconfitto della storia. Mai panico, mai inutile foga, ma amministrazione scientifica delle residue energie per stare in campo e illuminare per centoventi minuti. C’è riuscito perché ha declinato l’ambizione in umiltà, al contrario di Ronaldo, che ha ceduto alla hybris. Ma non è casuale che il leader che ora avvista la Coppa abbia dieci anni di più del Maradona che la vinse.
Messi può desiderare, e noi con lui, di ripetere le gesta di Diego. Può anche inventarsi una magia che somigli a quella serpentina sublime e ipnotica con cui il Pibe mise a terra l’Inghilterra.

È difficile che gli riesca a trentacinque anni, anche se il suo repertorio di stupore è ancora infinito. Tuttavia, come ha spiegato lo scrittore argentino Martin Caparros, se a Maradona è riuscito di essere il più grande di tutti i tempi, a Messi può riuscire al massimo di essere come Maradona. Questo destino emulativo spiega le tardive sortite del campione a difesa degli stipendi dei compagni del Barça, o il divorzio via fax seguito dalle lagrime, o ancora la maglia sfilata ed esibita in segno di sfida al pubblico ostile del Santiago Bernabeu. Imprese che gli hanno meritato il soprannome di Messianello, ma non lo avvicinano di un metro all’empireo del mito. Maradona, ha detto una volta Jorge Valdano in un’intervista con Angelo Carotenuto su la Repubblica, è il genio arrivato in sella a un cavallo bianco per salvare argentini e napoletani, a Messi non resta che fare tutta la vita ciò che Diego fece per un mese in Messico. È la sorte di tutti i sopravvissuti al calcio dopo Diego, che siano atleti o semplici appassionati come chi scrive: godere di un buon remake.


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