Auguri Del Piero, così diventò Pinturicchio
Domani l’ex campione della Juve festeggia 40 anni
ROMA - Oggi e da quasi vent’anni Del Piero è, per tutti, Pinturicchio. Già, ma cosa c’entra un fuoriclasse del calcio con un pittore della scuola umbra del secondo Quattrocento? E perché, quando si parla di Del Piero-Pinturicchio, non si può fare a meno di pensare a un artista ancora più grande, Raffaello? Insomma: quando, dove e come nasce questo soprannome?
Del Piero diventò Pinturicchio un giorno d’agosto del 1995 a Villar Perosa, il feudo della famiglia Agnelli. In questo paesino della Val Chisone, Piemonte, negli anni Settanta e Ottanta la Juventus preparava la stagione; negli anni Novanta, giocava una partita amichevole contro la squadra Primavera. Era, per il mondo bianconero, la giornata più attesa dell’estate. I giocatori la vivevano con ansia, soprattutto i giovani, e perfino dirigenti scafati come Moggi apparivano meno sereni e sicuri del solito. Giornalisti e giornali, poi, erano in fibrillazione perché a Villar Perosa, quasi ogni anno, piombava Gianni Agnelli. E poteva dire qualsiasi cosa, regalando interviste memorabili. Una coda di cronisti lo seguiva nel suo peregrinare attorno al campo. L’Avvocato, un po’ compiaciuto e un po’ divertito, rispondeva a qualche domanda e poi si intratteneva con un giocatore, riprendeva la conversazione con le tv e poi si sedeva con l’allenatore. Non era mai banale, perciò tante sue frasi, tante sue definizioni sono entrate nella storia del nostro calcio. E la sua disponibilità era totale: a a che vedere con l’arroganza di certi dirigentucoli che circolano nel calcio di oggi. Spesso era lui stesso a intervistare i giornalisti: «Ma chi è quel ragazzino con quel bel sinistro?», e magari era rimasto colpito da un terzino della Primavera di cui nessuno sapeva niente.
Chi scrive non può dimenticare il giorno in cui Gianni Agnelli si fermò a vedere la partita in piedi dietro una delle porte, con la testa praticamente dentro la rete. Forse era proprio quell’anno, il 1995. Noi che lo seguivamo passo dopo passo, e gli stavamo addosso, ci scambiavamo occhiate ammiccanti: ma che ci fa qui? Se Vialli avesse azzeccato uno dei suoi tiri potenti, quell’uomo ormai anziano - aveva superato ampiamente i settanta - avrebbe potuto farsi seriamente male. La sorte volle che l’arbitro concedesse un rigore che sarebbe stato calciato proprio verso quella porta. Istintivamente, arretrammo tutti - saremmo stati dieci, forse più, telecamere comprese - di due o tre passi. Questione di sicurezza, diciamo. Lui rimase imperterrito con la faccia attaccata alla rete della porta, quasi a sfidare il pericolo. Lo juventino chiamato sul dischetto (a memoria direi Tacchinardi, ma potrei sbagliare) pensò bene di calciare uno dei rigori più brutti della storia: lentissimo, poco angolato. Parata facile e figuraccia, ma nessun rischio per quello spettatore invadente.
Quell’afosa giornata di diciannove anni fa, dunque, l’Avvocato scese dalla Fiat Thema - spesso guidava lui stesso, con l’autista relegato al ruolo di passeggero - e ci regalò subito un annuncio storico: la Ferrari aveva ingaggiato Schumacher. Non c’erano dirette tv 24 ore su 24 e Internet non dettava ancora i ritmi delle nostre vite. Tutti noi cominciammo a chiamare le redazioni, era già pomeriggio inoltrato: i giornali andavano rifatti, la notizia era enorme. Ma Agnelli era in forma, continuò a dare giudizi e informazioni, domandò perfino perché Vialli appena arrivato a Torino fosse «grasso come un tacchino, mentre ora è bello magro: ma che gli hanno fatto?». Dopo un’ora, forse più, i taccuini erano pieni e lui stava per sedersi in panchina accanto a Lippi. Fu allora che buttai lì un’ultima domanda: «Avvocato, ma se Baggio è Raffaello, Del Piero che pittore le ricorda? ». Lo spunto era offerto da un’intervista che Agnelli aveva rilasciato qualche settimana prima a Candido Cannavò, direttore della Gazzetta, nella quale aveva appunto accostato i capolavori di Roby a quelli dell’artista marchigiano (nel frattempo Baggio era passato al Milan, ma questa è un’altra storia). Mi lanciò un’occhiata che sembrava quasi di rimprovero: mi avete stremato con le vostre domande, vi ho detto di tutto, e ora che m’invento per non deludervi? Sapeva di non poter essere scontato, non era da lui. Rifletté pochi secondi, ero quasi imbarazzato, magari avevo esagerato, avrei dovuto mollare. A un certo punto il suo sguardo ebbe un lampo. Disse piano: «Pinturicchio». Aveva appena sussurrato quel nome, non avevamo capito. Insistemmo: chi? «Pinturicchio. Sì, Del Piero è Pinturicchio».
Fu subito chiaro che Del Piero sarebbe stato Pinturicchio per sempre, anche quando avrebbe disegnato un’infinità di capolavori degni di Raffaello. Richiamammo le redazioni: dobbiamo pubblicare sul giornale un articolo per spiegare chi è Pinturicchio da allegare all’intervista ad Agnelli. Pensarono che l’Avvocato ci avesse ubriacato, invece aveva appena consegnato alla storia del calcio un altro soprannome indelebile.
© RIPRODUZIONE RISERVATATutte le news di OpinioniDel Piero diventò Pinturicchio un giorno d’agosto del 1995 a Villar Perosa, il feudo della famiglia Agnelli. In questo paesino della Val Chisone, Piemonte, negli anni Settanta e Ottanta la Juventus preparava la stagione; negli anni Novanta, giocava una partita amichevole contro la squadra Primavera. Era, per il mondo bianconero, la giornata più attesa dell’estate. I giocatori la vivevano con ansia, soprattutto i giovani, e perfino dirigenti scafati come Moggi apparivano meno sereni e sicuri del solito. Giornalisti e giornali, poi, erano in fibrillazione perché a Villar Perosa, quasi ogni anno, piombava Gianni Agnelli. E poteva dire qualsiasi cosa, regalando interviste memorabili. Una coda di cronisti lo seguiva nel suo peregrinare attorno al campo. L’Avvocato, un po’ compiaciuto e un po’ divertito, rispondeva a qualche domanda e poi si intratteneva con un giocatore, riprendeva la conversazione con le tv e poi si sedeva con l’allenatore. Non era mai banale, perciò tante sue frasi, tante sue definizioni sono entrate nella storia del nostro calcio. E la sua disponibilità era totale: a a che vedere con l’arroganza di certi dirigentucoli che circolano nel calcio di oggi. Spesso era lui stesso a intervistare i giornalisti: «Ma chi è quel ragazzino con quel bel sinistro?», e magari era rimasto colpito da un terzino della Primavera di cui nessuno sapeva niente.
Chi scrive non può dimenticare il giorno in cui Gianni Agnelli si fermò a vedere la partita in piedi dietro una delle porte, con la testa praticamente dentro la rete. Forse era proprio quell’anno, il 1995. Noi che lo seguivamo passo dopo passo, e gli stavamo addosso, ci scambiavamo occhiate ammiccanti: ma che ci fa qui? Se Vialli avesse azzeccato uno dei suoi tiri potenti, quell’uomo ormai anziano - aveva superato ampiamente i settanta - avrebbe potuto farsi seriamente male. La sorte volle che l’arbitro concedesse un rigore che sarebbe stato calciato proprio verso quella porta. Istintivamente, arretrammo tutti - saremmo stati dieci, forse più, telecamere comprese - di due o tre passi. Questione di sicurezza, diciamo. Lui rimase imperterrito con la faccia attaccata alla rete della porta, quasi a sfidare il pericolo. Lo juventino chiamato sul dischetto (a memoria direi Tacchinardi, ma potrei sbagliare) pensò bene di calciare uno dei rigori più brutti della storia: lentissimo, poco angolato. Parata facile e figuraccia, ma nessun rischio per quello spettatore invadente.
Quell’afosa giornata di diciannove anni fa, dunque, l’Avvocato scese dalla Fiat Thema - spesso guidava lui stesso, con l’autista relegato al ruolo di passeggero - e ci regalò subito un annuncio storico: la Ferrari aveva ingaggiato Schumacher. Non c’erano dirette tv 24 ore su 24 e Internet non dettava ancora i ritmi delle nostre vite. Tutti noi cominciammo a chiamare le redazioni, era già pomeriggio inoltrato: i giornali andavano rifatti, la notizia era enorme. Ma Agnelli era in forma, continuò a dare giudizi e informazioni, domandò perfino perché Vialli appena arrivato a Torino fosse «grasso come un tacchino, mentre ora è bello magro: ma che gli hanno fatto?». Dopo un’ora, forse più, i taccuini erano pieni e lui stava per sedersi in panchina accanto a Lippi. Fu allora che buttai lì un’ultima domanda: «Avvocato, ma se Baggio è Raffaello, Del Piero che pittore le ricorda? ». Lo spunto era offerto da un’intervista che Agnelli aveva rilasciato qualche settimana prima a Candido Cannavò, direttore della Gazzetta, nella quale aveva appunto accostato i capolavori di Roby a quelli dell’artista marchigiano (nel frattempo Baggio era passato al Milan, ma questa è un’altra storia). Mi lanciò un’occhiata che sembrava quasi di rimprovero: mi avete stremato con le vostre domande, vi ho detto di tutto, e ora che m’invento per non deludervi? Sapeva di non poter essere scontato, non era da lui. Rifletté pochi secondi, ero quasi imbarazzato, magari avevo esagerato, avrei dovuto mollare. A un certo punto il suo sguardo ebbe un lampo. Disse piano: «Pinturicchio». Aveva appena sussurrato quel nome, non avevamo capito. Insistemmo: chi? «Pinturicchio. Sì, Del Piero è Pinturicchio».
Fu subito chiaro che Del Piero sarebbe stato Pinturicchio per sempre, anche quando avrebbe disegnato un’infinità di capolavori degni di Raffaello. Richiamammo le redazioni: dobbiamo pubblicare sul giornale un articolo per spiegare chi è Pinturicchio da allegare all’intervista ad Agnelli. Pensarono che l’Avvocato ci avesse ubriacato, invece aveva appena consegnato alla storia del calcio un altro soprannome indelebile.
