Allegri al Napoli? E' già accaduto per 7 partite...

Nel 1997-98 l’allenatore della Juve giocò alcune gare con la maglietta del Napoli: lo chiamò Galeone in un'annata maledetta
Allegri al Napoli? E' già accaduto per 7 partite...
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Ah, quel nostro tempo nel golfo delle false sirene sei anni dopo Maradona. Massima baraonda azzurra nell’anno in cui Massimiliano Allegri venne a giocare nel Napoli, 1997-98. Trent’anni, giovane affascinante per l’aria sfaticata, occhio di triglia livornese, bocca stretta con spifferi toscani, un orizzonte da allenatore e un elegante distacco dallo strazio azzurro. Quattro allenatori e 32 giocatori trascinarono il Napoli all’inferno. Cani perduti senza collare. Ferlaino non più presidente, ma azionista di riferimento. Suo uomo di fiducia Gian Marco Innocenti, amministratore unico. Un buco di 90 miliardi vendendo i gioielli di famiglia. Il Parma aveva pagato generosamente gli acquisti di Crippa (9 miliardi di lire), Fabio Cannavaro (13) e Zola (13), Ciro Ferrara andò alla Juve per 9,4 miliardi, Fonseca alla Roma per 17,5. Gli anni di Diego avevano lasciato una voragine di debiti. Spese pazze e pezze sul sedere. Una girandola di dirigenti: Boldoni, Tedeschi, Abbamonte, Laudadio, Santi, Scalingi, infelicissima schiera d’uommene scicche e signure ‘ncruvattate.

Ferlaino prese direttamente il terzino William Prunier dal Montpellier e disse: «Non è un Adone, ma vi assicuro che è un giocatore di grande efficacia». Brutto era e giocò tre partite. Ottavio Bianchi, nei quadri societari, assunse Bortolo Mutti. Cinque partite, quattro punti. Da Fragneto Monforte, dov’era a un convegno di sport, Ferlaino lo licenziò per telefono. Bianchi si dimise per solidarietà. E arrivò Mazzone, troppo onesto per un crac annunciato. Chiamò dall’Austria Giuseppe Giannini, 33 anni, suo pupillo a Roma e principe in pensione allo Sturm Graz, entrambi travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di Napoli. Quattro partite, zero punti. Se ne andarono insieme a fine novembre. E venne l’autunno e arrivò Galeone, chiamato da Salvatore Bagni responsabile del settore tecnico.

Nel nome un solido naviglio sulle acque agitate del golfo, bagnolese per giunta, emigrante di ritorno. Nella persona un ironico conversatore. Nei fatti 3 punti in dieci partite. Gli telefonò Bassolino: «Riporti la squadra nelle zone alte». Venne dicembre e ce cadéano ‘nzino a schiocche a schiocche le illusioni azzurre. Anche Galeone chiamò un suo pupillo, Massimiliano Allegri. L’aveva avuto nelle immaginifiche stagioni di Pescara. Galeone disse: «Salvo il Napoli e lascio il calcio». Al Campo Paradiso, dileguatasi l’ultima ombra del pibe de oro, il magazziniere Tommaso Starace esplose dei tric-trac beneauguranti. Nessuno capì che cosa ci facesse Allegri in una banda di patetici masnadieri, calciatori per caso, stranieri che non parlavano l’italiano e italiani che non parlavano il napoletano, una classica “banda di musica” come diciamo a Napoli. Max e la sua figura di giovanotto riccioluto nei garbugli di quell’annata. Fece amicizia con Raffaele Sergio, un trentenne di Cava de’ Tirreni, che giocava terzino. Perdevamo con una regolarità impressionante. Galeone inserì Allegri in squadra a Genova, nella partita a tennis perduta contro la Sampdoria (3-6) con questi martiri in campo: Di Fusco; Baldini, Crasson, Ayala, Facci; Goretti, Asanovic, Rossitto; Bellucci, Allegri, Protti. Allegri giocò sette partite con l’impudente sorriso a labbra lunghe e strette (cinque sconfitte e due pareggi). Quattro volte non finì la gara, sostituito da Longo, Altomare, Asanovic e Panarelli. 

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