La grazia e la denuncia

La grazia e la denuncia
Alessandro Barbano
5 min

«Noi siamo spagnoli, africani, fenici, cartaginesi, romani, arabi, pisani, bizantini, piemontesi», scrive Grazia Deledda in una bella poesia intitolata “Noi siamo sardi” e distribuita dal Cagliari sugli spalti dello stadio Sardegna Arena. «Noi siamo razzisti», denuncia Antonio Conte, ricordando che, al ritorno in Italia dopo tre anni, ha trovato «tantissimo odio e rancore» e un Paese «peggiorato all’ennesima potenza».

La poesia e la denuncia stanno una di fronte all’altra nello stesso spazio pubblico. E raccontano due verità opposte. La prima ci mostra che finalmente le società di calcio la smettono di dire “io non c’entro”. Anzi, ci mettono la faccia con coraggio e intelligenza, per spiegare, con i versi della prima donna italiana insignita del Nobel, che il massimo di identità può coincidere con il massimo di meticciato. In Sardegna, e non solo. La seconda ci toglie l’alibi dei dieci defi cienti, con cui fi no a ieri si è cercato di circoscrivere il fenomeno dei cori xenofobi negli stadi. E riconosce che il razzismo e l’insulto sono il nuovo lessico sentimentale del Paese.

Ma Conte dice di più, chiamando in causa la responsabilità delle élite, a cui lui appartiene, e del giornalismo, «tutti colpevoli» nel «fomentare l’odio». Perché in un modo o nell’altro hanno sdoganato la violenza separandola dalla vergogna, declinandola in una dimensione falsamente anticonvenzionale, e quindi a suo modo falsamente originale, e quindi a suo modo falsamente popolare, e quindi a suo, suo, suo modo falsamente democratica. Cosicché nessuno più si vergogna di dire e scrivere bestialità, e pochi si preoccupano di sbattere fuori dalla porta chi le dice e chi le scrive. Questo è l’equivoco che nutre il razzismo.

Se tu metti in un talk un conduttore a fare da vigile urbano e due antagonisti a discutere se è vero o no che gli immigrati sono delinquenti, stai segando le gambe alla democrazia. Che, come spiegò una volta il grande scrittore triestino Claudio Magris, non è mai neutrale, ma vive e si rigenera ridefi nendo i suoi valori. E discriminando ciò che ha diritto di essere detto e discusso da ciò che invece deve restare fuori dalla porta. In questa confusione il razzismo e l’antirazzismo rischiano di essere due opzioni alternative.

La neutralità del calcio è stata fi no a ieri interessata. Appaltando in un comodato gratuito gli spalti alle comunità chiuse degli ultrà, le società hanno creduto di coltivare e controllare il consenso. Senonché il tribalismo di questi gruppi è andato slittando in senso contrario rispetto alle aspettative di civiltà e di educazione della società. Più le famiglie e i tifosi si abituavano a considerare la partita uno spettacolo fruibile come consumo culturale, più gli ultrà rivendicavano l’esclusiva della rivalità sportiva come il collante di un’identità settaria e guerrafondaia. Così gli stadi sono diventati spazi franchi e inospitali, al confronto con la crescente comodità dei salotti televisivi. Quando le società si sono accorte di aver perso le famiglie, hanno iniziato a coccolare gli ultrà, nel timore di veder scendere quel già misero 11 per cento di introiti da stadio. Così per anni hanno chiuso un occhio, e talvolta due, al settarismo, all’illegalità e alla violenza dei nuovi padroni delle curve.

Questi teppisti invecchiati e malvissuti, come ben li defi nisce Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di ieri, pretendono che sugli spalti valgano solo le loro leggi e le loro usanze. Se i giocatori della Lazio omettono di rendere omaggio al capobranco assassinato in un agguato mafi oso, gli ultrà gli fanno divieto di festeggiare il gol sotto le curve. E quelli obbediscono. Se Lukaku grida allo scandalo dei cori di Cagliari, gli ultrà nerazzurri off rono ai colleghi sardi la loro solidarietà, per chiarire al centravanti belga che loro e solo loro possono stabilire che cosa è, o piuttosto non è, razzismo. Se la procura arresta 12 capi dopo anni di ricatti alla Juve, denunciati troppo tardivamente, gli ultrà annunciano lo sciopero del tifo e i picchetti davanti allo stadio, per impedire ai tifosi comuni di entrare, perché in quello spazio - questo è il messaggio - comandano loro.

Ecco perché, ha ragione Conte, la situazione è peggiorata. E per cambiare musica, bisogna accordare l’orchestra e fare in modo che tutti suonino come ha fatto Bernardeschi. Beccato dai teppisti per aver regalato la sua maglia a un gruppo rivale, l’esterno bianconero ha risposto su Instagram che non esistono tifosi meno degni di altri, poiché «ad unirli non è il nome del loro gruppo ultrà, ma la passione». Da oggi non basta dire “io non c’entro”, e far fi nta di non vedere e non sentire. Vale per i tifosi veri, ma soprattutto per gli atleti, per i club, per gli arbitri, per le istituzioni e la giustizia sportive. E per il governo. Prima che sia troppo tardi.


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