Battaglia vinta, non la guerra

Battaglia vinta, non la guerra© ANSA
Alessandro Barbano
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C’ è il via agli allenamenti collettivi dal 18 maggio, c’è il protocollo sanitario approvato dagli scienziati, c’è una maggioranza parlamentare dalla parte del calcio, e da ultimo c’è la delibera dei club di serie A per tornare a giocare il 13 giugno. Ma tutto questo non vuol dire ancora che il campionato ripartirà. Non solo perché l’ultima parola ora tocca al governo. E alla mediazione tra le sue diverse anime, a cui dovrà applicarsi il premier Giuseppe Conte, ridimensionando, senza sconfessare, un ministro dello sport che ha fin qui giocato contro. Ma perché la ripresa del campionato si inscrive in quella della vita pubblica e richiede regole d’ingaggio nuove, in grado di consentirci di convivere con il virus, sfidandolo con una strategia selettiva e non segregazionista. Vuol dire, per esempio, rendere più flessibili le norme che regolano la quarantena obbligatoria, affinché un solo contagiato non fermi un intero processo produttivo.
Per rimettere in piedi il sistema occorrono condivisione del rischio e solidarietà economica. Purtroppo il calcio arriva a quest’appuntamento con le ossa rotte e con poca lungimiranza. Lo sconsiderato indebitamento dei club schiaccia i presidenti su una strategia speculativa. Di cui è prova l’ultimatum per il pagamento senza sconti dei diritti tivù, votato ieri quasi all’unanimità dalla Lega. Nell’era delle porte chiuse, i broadcaster sono un alleato da coltivare, non un rivale su cui scaricare le perdite. Lo ha capito la Germania, dove la Bundesliga riapre sabato i battenti grazie a un accordo preventivo tra società e network. L’altra incognita riguarda i calciatori. La Fifa ha spostato in avanti la dead line del 30 giugno, per consentire la conclusione dei campionati. Ma i contratti tra i club e gli atleti vanno temporalmente rimodulati, soprattutto quelli in scadenza. Se prevarrà uno spirito di reciproca solidarietà, le società potrebbero essere pronte il 13 giugno a giocarsi sul campo le loro sfide sportive. Se invece la scadenza sarà la leva di pretese implausibili o, peggio, di ricatti, l’equilibrio fragilissimo della ripartenza potrebbe spezzarsi.
L’Assocalciatori ha una grande responsabilità: far comprendere agli atleti che niente sarà più come prima. Lo studio di Kpmg, reso pubblico nei giorni scorsi, segnala che se il calcio non riparte il suo patrimonio umano si deprezza di 500 milioni, ma se anche riparte ha già perso un miliardo. Il prezzo dei cartellini e degli ingaggi non potrà più essere quello di ieri, ma a grandi linee quello di sette-dieci anni fa. Se i calciatori e i club accetteranno di adeguarsi alle nuove condizioni di mercato, il sistema potrà riprendersi e tornare a crescere. Se ciascuno si arroccherà nelle antiche pretese, l’indebitamento diventerà una zavorra non più sostenibile e il collasso sarà la naturale conseguenza.
La giornata di ieri porta all’incasso il risultato di una battaglia condotta da una parte del calcio, dell’informazione e della politica. Ma senza una rete di responsabilità intrecciate tra loro, il sì degli scienziati, la volontà del Parlamento e la stessa delibera della Lega per giocare dal 13 giugno potrebbero rivelarsi vane illusioni. Adesso o mai più serve una classe dirigente di uomini illuminati e non di ambigui cialtroni. Dentro il calcio, e nella politica. A cui non è richiesto di distribuire sussidi, ma di aprire visioni e di promuovere sintesi e accordi.


 


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