Juve-Napoli, un processo alle peggiori intenzioni

L’analisi della decisione del Giudice Sportivo che ha dato ai bianconeri la vittoria 3-0 a tavolino
Juve-Napoli, un processo alle peggiori intenzioni
Alessandro Barbano 
5 min

Il verdetto è l’epilogo di un processo alle peggiori intenzioni del Napoli. Intenzioni certamente non lucide, sportivamente discutibili, forse anche sleali. Ma non sufficienti a giustificare la condanna del tre a zero a tavolino e del punto di penalità. A quelle intenzioni il giudice sportivo fa riferimento, piegando il diritto alla morale, la logica al sospetto. E dimostrando che la giurisdizione domestica del calcio non è solo un magistero autonomo che giustifica la specialità e la dignità dello sport, ma un’enclave dove si regolano i conti. De Laurentiis, che Juve-Napoli non voleva giocarla, e che ha certamente tirato la pandemia per la giacchetta, avrà molti buoni motivi per fare ricorso. Perché la sua rinuncia a far partire la squadra per Torino ha, nel divieto della Asl, un ostacolo formalmente insuperabile. 

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Ma per intanto deve ingoiare una sentenza che sostiene il contrario, con un ragionamento che contraddice le premesse. Perché prima sostiene che la decisione si fonda unicamente sull’inesistenza di una causa di forza maggiore che impedisse la trasferta, poi però la motiva con una serie di azioni compiute dal club azzurro alla vigilia della gara, come la disdetta del viaggio, che sono sintomatiche della volontà di non giocare. Appunto, intenzioni. 

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Ma il Napoli poteva partire o no? E qui il giudice fa ricorso a un sofisma logicamente insostenibile. Secondo cui la prima ordinanza dell’Asl, giunta nel pomeriggio di sabato, non sarebbe «incompatibile con l’applicazione del Protocollo sanitario della Figc e quindi con la possibilità di disputare l’incontro di calcio programmato a Torino». Il divieto di partire arriverebbe, secondo la sentenza, solo con una seconda nota di chiarimenti inviata dall’autorità sanitaria al club azzurro alle 14.13 di domenica, configurando questa sì una causa di forza maggiore che impediva la trasferta, quando ormai la trasferta sarebbe stata impossibile perché il Napoli aveva deciso di non partire. Ora, secondo il giudice, tra la prima e la seconda nota della Asl il club azzurro avrebbe potuto e dovuto raggiungere Torino, invece ha disdetto il volo precostituendo la sua inadempienza all’obbligo di presentarsi in campo. 

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E qui il fuoco del giudizio si sposta dai fatti e dagli atti alle intenzioni e ai sospetti. Perché ciò che rileva, ai fine della sconfitta a tavolino, è se il divieto della Asl fosse o no superabile. Secondo il giudice prima sì, e poi no. E in mezzo sta la colpevolezza degli azzurri. Ma lo stesso giudice commette l’ingenuità di definire la seconda lettera della Asl una nota di chiarimenti. Se erano chiarimenti, non erano un’integrazione alla precedente prescrizione, ma un’interpretazione della prima ordinanza. Quella nota chiariva che, prescrivendo l’isolamento domiciliare dei contatti stretti di Zielinski ed Elmas, la Asl vietava implicitamente la trasferta. Sostenere che il Napoli dovesse partire tra la prima e la seconda nota significa da parte del giudice suggerire un comportamento che, a posteriori, sarebbe risultato contro legge. Ciò è semplicemente aberrante. 

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In questa vicenda ci sono tutte le ambiguità di un sistema Paese che la lente d’ingrandimento della pandemia ha messo in evidenza. C’è la contraddizione tra una quarantena hard e una soft, che restano entrambe in piedi, e pongono un medico burocrate contro un protocollo federale vidimato dal governo. C’è il tentativo dei presidenti di lucrare sulla pandemia o comunque di sottrarsi ai suoi costi sportivi, anche rischiando di rompere il giocattolo. E, da ieri, c’è l’insostenibile pesantezza di una sentenza che sembra voler ricordare che chi rompe il giocattolo paga. Aggiungendo ambiguità ad ambiguità. C’è da scommettere che la storia non si chiude qui. 


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