La Roma crea, il Napoli esagera

Gap enorme per i giallorossi tra grandi chance e gol realizzati. Ma gli azzurri fanno meglio: l'analisi
Antonio Giordano
6 min

È inutile provare a chiedersi cosa sarebbe il calcio senza Mourinho: forse, non essendoci un uomo del genere - speciale sempre - finirebbe per essere più povero nel dibattito, inghiottito in una banalità dalla quale sfuggire o con cui anestetizzarsi. Mourinho è contemporaneamente il canto e il controcanto, è la tesi e pure l’antitesi, è lo show che comincia ancora quando non hanno messo la palla al centro e che prosegue dopo il triplice fischio. Mourinho è il pensiero ampio, “travolgente”, la capacità di mandare in corto circuito l’interlocutore, la scintilla con cui appiccare il fuoco dialettico, il più estremo “difensore” di se stesso, delle proprie teorie che poi trasforma in teoremi, d’un Mondo che gli appartiene per intero, piaccia o no, perché l’ha conquistato e partendo dal sottoscala del football, a modo suo, quando la cosiddetta costruzione dal basso non veniva ancora catalogata come una novità. Mourinho è stato un precursore, ha attaccato per scrollarsi di dosso le insidie del nemico e il suo distraente rumore, ha aggirato il pericolo e l’ha poi sedotto attraverso quello sguardo da bohémien, un anticonformista che però stavolta (finge) di calarsi in un conformismo di facciata: perché Mourinho è fondamentalmente incurante degli slogan, li ha presi a spallate con quella sua storia che gronda successi ad ogni latitudine e non va neppure scandita essendo nota all’universo intero. Però, amandosi (legittimamente), a quest’uomo che non «è un pirla», è gradito umanamente compiacersi del suo calcio, evitando infingimenti. C’è uno stile calcistico in Mourinho ed è facilmente decodificabile, perché espresso ovunque, senza che fosse stato necessario storcere il muso, e ci mancherebbe: le vittorie, i successi, anzi i trionfi, sono nati attraverso un’organizzazione che non ha indotto al delirio per lo spettacolo ma che ha agitato le folle per la lucidità strategica d’un Generale intelligente e autorevole, capace di ottenere il sangue da chiunque, anche da Eto’o in trincea, per soffocare il Barcellona.

Mourinho non sa stare, non può stare dentro un’etichetta che teoricamente ridimensiona la portata del suo football, perché la Leggenda è inattaccabile, ma la forma - nell’epoca delle apparenze ingigantite anche dai social - è un aspetto da tutelare. Mourinho non è un difensivista, non ama sentirselo dire nessun allenatore di questo macrocosmo, e comunque, se pure fosse così, non ci sarebbe niente d’ingiurioso, né d’irrispettoso: al Museo del Calcio, lui sta tra i giganti e ci rimarrà, cosa importa, eventualmente, che sia con merito approdato nel Pantheon guardandosi un po’ le spalle? Dal punto di vista tattico, la diversità è nel modo di andare ad attaccare, lo fa anche la Roma, che ha dovuto confrontarsi con la sorte ed è stata costretta a negarsi Wijnaldum e Dybala, la loro natura esagerata, la capacità di entrambi di correre in avanti, di sterzare, di essere decisivi, di risultare incisivi. Nei 13 gol della Roma, 5 li ha segnati l’argentino, e vorrà dire pure qualcosa se adesso, dinnanzi all’incedere di una domanda indiscutibilmente appropriata, qualche risentimento emozionale nasca spontaneo nel principe mediatico. La Roma di Mou è andata 153 volte alla conclusione, in 56 circostanze è atterrata nello specchio della porta e in altre 57 fuori, per sei volte è andata a sbattere sui pali o sulle traverse, ha una percentuale assai contenuta di realizzazione (il 12%), decolla con un baricentro basso (48).

Roma, lo spreco

Visto che le statistiche hanno ormai conquistato un ruolo - e ora con gli expected goals potremmo anche imprecare ai rimpianti - la Roma, ahilui, dà ragione a Mourinho, perché ha sprecato tanto, poco meno d’una decina di reti rispetto a quelle che avrebbe potuto o dovuto segnare. Ma esiste anche poi un’analisi più profonda, che non si adagia sulla crosta degli algoritmi, va nello specifico e non nel manierismo o nei luoghi comuni, appartiene alla sensibilità e al senso estetico che il calcio sa esprimere: il Napoli, che stasera starà dall’altra parte, oltre lo specchio di Mou, è stato capace di farne 25 in campionato, persino tre in più di quello che questa ingegnosa invenzione tende a spiegarci, ha messo assieme 138 conclusioni contro le 113 dei giallorossi. Forse sarà cinismo o praticità, che però sta dentro ad una spettacolarità indiscutibile e incalcolabile con qualsiasi regola scientifica o matematica: a volte è bello ciò che piace ma anche ciò ch’è plasticamente bello.

Zaniolo, gli strappi

Mourinho s’è dovuto arrangiare, ha dovuto fare a meno anche degli strappi di Zaniolo (soltanto 366' giocati), ha scoperto che il destino sa prenderlo ai fianchi, come raramente qualcuno degli avversari, e però probabilmente non avrebbe alterato la sua stessa natura, imperniata su una interpretazione sempre intellettivamente oltre, una formazione culturale che gli appartiene nell’eccesso e non è mai un difetto: la Roma di quest’anno ha l’ottavo attacco, ha dovuto sudare per vincere a Salerno e poi battere la Cremonese, è riuscito a sbarazzarsi faticosamente dell’Empoli e pure del Lecce e della Sampdoria, ha dominato il Monza ed ha dimostrato di avere nelle proprie corde, nel blitz a San Siro con l’Inter, lo spessore e l’autorevolezza che va riconosciuto anche a chi sa come eventualmente limitare i danni, riducendoli a considerazioni che non mirano al cuore, né all’identità assoluta di un uomo che il calcio l’ha segnato eccome. E se c’è ancora una competizione sulla luna da dover vincere per essere considerato diversamente (come disse un giorno Sua Maestà José), conviene lanciare uno sguardo verso il cielo: Expected Mou.


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