Eravamo i ricconi d’Europa, come oggi lo sono il Manchester City e pochi altri club. Avevamo i migliori giocatori del mondo e da noi crescevano dei veri campioni. Era impossibile, negli anni Ottanta e Novanta, non arrivare in fondo alle tre coppe, la Coppa dei Campioni/Champions League, la Coppa delle Coppe e la Coppa Uefa. L’ultima volta che abbiamo portato tre italiane nelle tre finali è stato nel ‘94: Milan-Barcellona 4-0 ad Atene, Arsenal-Parma 1-0 a Copenaghen, Inter-Salisburgo 1-0 al Prater di Vienna. Champions e Coppa Uefa a Milano, solo il Parma lasciò la Coppa delle Coppe ai londinesi. Nomi sparsi, nomi italiani, in quelle tre finaliste: Maldini, Albertini, Donadoni e Massaro nel Milan; Benarrivo, Minotti, Apolloni, Di Chiara e Zola nel Parma; Zenga, Bergomi e Berti nell’Inter. Poi gli stranieri che all’epoca facevano davvero la differenza, Desailly, Boban e Savicevic, Sensini e Asprilla, Bergkamp e Ruben Sosa. Potevamo scegliere e sceglievamo bene.
Differenze di organico e monte ingaggi
Trent’anni dopo siamo di nuovo in tre e se si pensa alla differenza del valore dell’organico e del monte ingaggi in due casi su tre c’è da sentirsi male. L’Inter, pur avendo l’organico più forte e completo della Serie A, sul piano economico non può competere col Manchester City di Guardiola che, tanto per dare un’idea, nella semifinale contro il Real Madrid ha fatto entrare solo a fine partita Mahrez, Foden e Alvarez, ovvero gli autori dell’azione e del gol del 4-0. Lo stesso va detto sul conto di Fiorentina e West Ham, la distanza sul piano economico è enorme. Lo è un po’ meno solo fra Roma e Siviglia, ma solo un po’ meno. Se Mourinho arriva in fondo all’Europa League con una squadra piena di cerotti e con un sacco di ragazzini è perché ha un organico ristretto. Undici buoni o buonissimi calciatori e dietro la Primavera più qualche riserva.
L'Inter sfida in finale di Champions il Manchester City del gigante Haaland