Di Francesco esclusivo: "Ho imparato dai miei errori. Roma? Me ne andai io"

L’allenatore del sorprendente Frosinone parla senza remore di passato, presente e futuro
Roberto Maida
9 min

Il campo è un tappeto meraviglioso e profumato ma la suola, che è quella dell’ex calciatore, individua un difetto impercettibile. «Scusate, è stato innaffiato?» chiede Eusebio Di Francesco a un magazziniere, poco prima dell’allenamento che è stato organizzato allo stadio Stirpe per la momentanea indisponibilità della cittadella di Ferentino. È l’attenzione al dettaglio di un uomo completo e compiuto, che ha assorbito i successi e soprattutto gli insuccessi per riempire il trolley delle conoscenze. Trascorriamo un paio d’ore insieme, tra un riso al curry e un caffè, in un’intervista che diventa uno scambio di idee sul calcio, sui progetti, sulla vita. A un certo punto Di Francesco, che non ama le derive del web, tira fuori un taccuino nero dentro al quale ha annotato appunti precisi su passato, presente e futuro: nomi di mercato raggiunti e mancati, discorsi motivazionali per la squadra, risposte per i giornalisti, riflessioni sul tema attualissimo della ludopatia. I suoi segreti sono nascosti là, dove la mente li va a cercare di tanto in tanto.

Eusebio, partiamo dalla domanda più scontata: perché siamo a Frosinone?
«Perché serviva un posto giusto per il mio anno zero. Qui ci sono le persone giuste, a cominciare dal direttore Angelozzi che mi conosce dai tempi del Sassuolo. Sono felice, finalmente. Non significa non percepire lo stress dell’obiettivo, per carità. Significa calarsi con naturalezza e spensieratezza nell’ambiente in cui si allena, seguendo valori condivisi».

Siete la prima squadra del Lazio per punti in classifica. Mica male come inizio.
«Siamo soddisfatti. Ed è bellissimo vedere la tifoseria entusiasta: mille persone ci seguiranno domenica a Bologna. Ma voglio che passi questo messaggio: umiltà e lavoro devono restare i punti fermi del nostro modo di ragionare. Altrimenti sarà impossibile centrare la prima storica salvezza del nostro club in Serie A».

Di Francesco, scusi: la rosa è piena di talento. Forse la salvezza è troppo poco.
«A inizio stagione nessuno lo pensava, però. Stiamo creando un bel gruppo e i risultati si vedono. Ma è solo l’inizio».

Soulé sembra già un campioncino.
«Se rimane quello che è, lo diventerà. È un ragazzo che sorride sempre fuori dal campo ma quando si allena esce incazzato se perde la partitella. Questa è la mentalità. Il rischio di prendere in prestito i giovani delle grandi squadre è trovarsi tra le mani un ragazzo altezzoso. Lui, ma anche Barrenechea e gli altri che sono arrivati, è una persona carinissima».

Qual è la difficoltà maggiore, allora, nell’assemblare una squadra neopromossa?
«Di sicuro non scegliere i giovani. È scegliere i calciatori più esperti. Sono quelli, anche se non giocano, gli equilibratori fondamentali nel corso di una stagione».

Turati è già uno dei migliori portieri della Serie A.
«Ha ottime prospettive. È cresciuto anche come uomo, dopo la squalifica per la bestemmia. Ha pagato una bella multa, gli è servita».

Ha mai pensato che Frosinone potesse essere l’ultima occasione della carriera?
«Sì, non lo nego. E lo penso ancora, mica abbiamo festeggiato niente. Ho letto un libro che si chiama “Incertezza positiva”. Ecco. Nella nostra situazione un po’ di paura è salutare, ci aiuta a pensare al presente».

Cosa le è successo dopo l’esonero con la Roma? Resta negli occhi la sua immagine, con lo sguardo perso nel vuoto a Oporto dopo l’eliminazione dalla Champions.
«Facciamo un passo per volta. Intanto è il momento di raccontare che la Roma non mi esonerò per quella partita. Sono stato io il primo a farmi da parte. Avevo comunicato ai dirigenti che non ero più a mio agio nella Roma, anche a causa del litigio con un calciatore».

Dzeko?
«Assolutamente no, con lui ero e sono in ottimi rapporti. Come con De Rossi. Non dico il nome per rispetto. Ma anche se ci fossimo qualificati contro il Porto, forse mi sarei dimesso».

Comunque, si era rotto tutto per un mercato sbagliato a meno di un anno dal 3-0 al Barcellona. Perché non si ribellò alle operazioni di Monchi?
«Chi dice che non mi sono opposto? Non l’ho fatto pubblicamente, semmai».

Mourinho e Conte avrebbero scatenato l’inferno.
«Bravi loro che ci riescono. Io ho un altro carattere e ho preferito gestire la questione all’interno, tanto è vero che con Monchi litigammo e non parlammo per molti giorni».

Non si rimprovera niente di come sia finita con la Roma nel 2019?
«Beh, dopo la semifinale di Champions avrei potuto scegliere un’altra squadra. Ma ero troppo legato alla Roma e decisi di rimanere. Semmai non mi sarei dovuto arrendere nel momento di difficoltà: in fondo eravamo quinti in classifica nonostante i problemi di organico e a Oporto eravamo stati eliminati in modo immeritato».

Poi però gli esoneri sono arrivati: tre consecutivi.
«Mi prendo le mie responsabilità. Ho sbagliato io, mi ha tradito la fretta di tornare ad allenare. Alla Sampdoria non dovevo andare. E lì rinunciai a tanti soldi, quindi ci mettemmo d’accordo nel rompere il contratto. A Cagliari andò male, c’era il lockdown che impediva al pubblico di partecipare, la stagione fu davvero stregata: i risultati non furono fortunati anche perché io ero poco sereno. Infine Verona: lì forse non mi sono abbastanza imposto sul mercato. E pagammo un inizio in salita, in cui venni accusato di una scarsa preparazione atletica: peccato che poi, dopo il mio esonero, Tudor vinse con la Roma all’esordio. Allora il problema non era quello... Rimasi male per come mi trattarono».

Una delle critiche che spesso le rivolgono è di parlare di un «mio» calcio, come se fosse l’unico possibile.
«Ma io sono molto meno dogmatico di prima. E avere un pensiero non implica presunzione. È far funzionare la propria testa. Lei non ha un suo pensiero?».

Certamente. Allora cosa è rimasto del Di Francesco del Sassuolo dei miracoli?
«La voglia di creare un’identità, un pensiero offensivo, possibilmente con tre attaccanti sempre in campo. Il resto è dinamico. Il resto è aggiornamento».

Il suo amico Montella, che si è appena qualificato con la Turchia agli Europei, dice che con gli allenatori funziona come con la moda. Ogni tanto ne esce uno trendy. Chi le piace degli allenatori di moda?
«De Zerbi. Merita il successo che ha e crescerà ancora. Ma stimo molto anche Thiago Motta, che affronteremo domenica. E poi Gasperini. Nel mio percorso di evoluzione le sue trovate tattiche sono state fonte d’ispirazione. Un tempo la marcatura a uomo mi sarebbe sembrata assurda, ora mi incuriosisce».

Mourinho non passa mai di moda.
«Qui parliamo di un’icona, è un allenatore che sta sopra a tutti noi. Fenomenale per personalità e comunicazione. E sa sempre quello che vuole: il risultato. Se poi chiedi il gusto personale, parlo di tecnici diversi e magari emergenti. Tipo De Zerbi, appunto».

Che idea si è fatto, da allenatore e da padre di un calciatore, a proposito del caso scommesse?
«È una faccenda seria, sociale: i calciatori sono uomini, innanzi tutto. Quanto a Federico, gli ho sempre ricordato che ha avuto una grande fortuna a giocare a calcio. È un’occasione che non si può sprecare. Il risultato è che lui non sa nemmeno giocare a carte e preferisce leggere, cosa che mi rende molto felice. Ma bisogna anche fare un distinguo: non c’è niente di male ad andare al casinò una volta ogni tanto. L’ho fatto anche io. Il pericolo è additare dei ragazzi, dei professionisti, di una colpa che non hanno. Quindi stiamo attenti. Il problema è la ludopatia, non la partita a poker con gli amici».

Ha mai incontrato un suo calciatore che giocava?
«No. Almeno non ho mai avuto certezze in merito. Però un giorno feci un discorso nello spogliatoio perché mi erano arrivate delle voci. Urlai che se la partita fosse finita come si diceva in giro, avrei denunciato tutti. Invece è andata diversamente. È stata la prima e unica volta in cui sono stato contento di avere perso».

In conclusione, dove ci rivediamo nella prossima stagione?
«Non sono abituato a guardare così lontano, vivo il momento. Ma se tutt o andrà bene sarò ancora qui. Ho detto scherzando al presidente che sono pronto a rimanere 10 anni, perché a Frosinone non manca niente».

Suona come una minaccia.
«No, è solo una promessa».


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