Mihajlovic e il Bologna, una fine inaccettabile

Mihajlovic e il Bologna, una fine inaccettabile© ANSA
Ivan Zazzaroni
3 min

BOLOGNA - Licenziato, esonerato, cacciato, silurato: la sostanza non cambia, al lettore la scelta. Mandato via proprio nei giorni in cui Mihajlovic sta meglio: ha messo su 4 chili, recuperato energia. Joey Saputo, uomo di numeri, impazienze e latticini, sempre convinto di avergli consegnato il Real, avrebbe voluto chiudere con lui già a febbraio, soltanto il ripresentarsi della malattia lo indusse a non spingersi oltre il confine del pudore: il divorzio sarebbe risultato impopolarissimo nel periodo in cui all’allenatore veniva prospettato il secondo trapianto di midollo.

Fuori per motivi tecnici, questo ha preteso che fosse scritto Sinisa: nessun accenno alla malattia. Ma i tre punti nelle prime cinque partite non possono essere, e non sono, la vera ragione dell’esonero, non lo spiegano, giustificano. Perché sono i punti di una squadra che ha venduto tre pezzi importanti (Svanberg, Theate e Hickey) incassando 45 milioni e acquistato seconde e terze scelte, dovendo – con il ricavato delle cessioni – coprire il buco creato da alcuni obblighi d’acquisto scaduti. I punti di una squadra che soltanto a Milano con i campioni non è stata in partita e che per quattro volte si è trovata in vantaggio. Finisce malissimo una storia di valori prima esaltati e poi demoliti, e per chi - come me - si riconosce da oltre mezzo secolo nei colori, nell’anima e nei ricordi della squadra della sua città, Bologna, il dolore è forte, l’avvilimento sfiora la vergogna. Così come il sospetto che l’impopolare decisione sia diventata utilmente popolare anche per quella sconcia esibizione di condanna di Sinisa effettuata da certa tifoseria innominata, odiatori senza volto, rapinatori di sentimenti meglio definibili utili idioti.

Credo e spero che soltanto Claudio Fenucci, l’ad, abbia tentato fino all’ultimo di evitare questo scempio: sapeva - lo conosce bene - che Mihajlovic, all’ultimo anno di contratto, avrebbe portato a 52 punti una squadra che considerava comunque più debole dell’ultima mantenendo la promessa-sfida con se stesso e il suo staff, i suoi ragazzi.

Il calcio per Sinisa è ragione di vita e di lotta: da due mesi si presentava al campo abbandonando l’ospedale anche se non gli era permesso. Seguiva l’allenamento dalla panchina soltanto perché i medici gli avevano imposto di non esporsi ai raggi del sole, ma lavorava con la solita attenzione, la solita passione. Il canadese Saputo è il padre del licenziamento e deve assumersene la responsabilità: ridicolo che la società abbia inseguito la condivisione di questa decisione. Sinisa voleva restare per completare alla grande un’indimenticabile, terribile, ma anche dolce avventura. Se ci saranno risparmiate esibizioni di amarezza dirigenziale e altre ipocrisie di facciata, saremo grati a una proprietà troppo distante, non solo fisicamente, dal nostro ideale.

Il calcio è un’azienda e le aziende non possono permettersi un cuore: a volte basterebbe il cervello.


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