Suarez, Luce a San Siro

Archetipo del Pirlo di tutti i tempi e intuizione di Moratti senior
Suarez, Luce a San Siro© ANSA
Cristiano Gatti
6 min

Era un’altra Milano. Non ancora da bere, non ancora esagerata, comunque una Milano gagliarda, piena di energia e di sogni, una Milano a maniche rimboccate. In quella Milano, c’era uno spagnolo in mezzo al campo di San Siro che dava carezze al pallone, carezze da quaranta metri, solo un impercettibile rumore di soffio e di brezza, con questo stesso pallone che al termine del volo sembrava recapitato da un drone Amazon sui piedi dei Mazzola e dei Jair, pronto per sparire in rete. Questo archetipo dei Pirlo di tutti i tempi l’aveva preso a Barcellona uno dei cumenda più attivi e più visionari di quella Milano corsara e romantica, il signor Moratti senior. S’era messo in testa di regalare alla sua famiglia e alla sua città la più grande squadra del mondo, molto prima di Berlusconi, per dire quant’era ambiziosa e smisurata l’indimenticabile Milano degli anni Sessanta. Sarti-Burgnich-Fachetti. Luci a San Siro. Questi versi poetici, questi modi di dire, sedimentati nel lessico familiare di tutte le generazioni, vengono fuori da lì. Da Moratti padre e dal genio eretico che aveva messo in panchina, quell’Helenio Herrera talmente geniale da essere definito Mago. E con loro due da un branco di giocatori impareggiabili, spediti via in velocità dai piedi fatati dall’imperturbabile spagnolo messo in mezzo al campo, davanti alla difesa, fabbrica perfetta dei lanci più belli e precisi che si fossero mai visti. Lancio millimetrico, scatto di Jair, gol. Lancio geniale, dribbling di Mazzola, gol. Illuminata dalle Luci a San Siro, quella formazione cominciò a diventare una filastrocca, un ritornello, un gioco di parole, che ancora oggi tanti padri e tanti nonni restano orgogliosi di ripetere a memoria. Sarti-Burgnich-Facchetti. E il resto è storia gloriosa, con i suoi Domenghini e i suoi Corso, ma anche con i suoi Bedin e i suoi Milani. Artisti e operai, l’inspiegabile alchiminia che riesce in certi modi soltanto ad ogni cambio d’epoca.

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Chi era Luis Suarez

In un letto d’ospedale, a 88 anni, una Luce di San Siro si è spenta per sempre. Quel faro in mezzo al campo, il lanciatore millimetrico, ha cessato di esistere. Nella sua seconda vita, illuminava di arguzia e di ironia i tetri e avvelenati dibattiti televisivi, alleggerendo soltanto il clima, perché in realtà le sue parole e i suoi giudizi non erano per niente leggeri, nel senso di vacui e ruffiani, ma avevano sempre il raro crisma dell’intelligenza e della personalità. Era opinionista con opinioni, figura rara. Di lui si può leggere la biografia con un rapido clic. Galiziano di La Coruna, figlio di un macellaio, prima di fare grande l’Inter fa grande il Barcellona, nel ‘60 vince il Pallone d’oro, Moratti lo paga 300 milioni, all’inizio è portato a pentirsene, fino a quando il Mago non piazza l’acquisto stellare davanti alla difesa e allora anche il presidente torna a sorridere, con lui Milano e l’Italia, portandosi a casa 3 scudetti, 2 Coppe campioni, 2 Coppe intercontinentali, dopodiché il genio va a chiudere la carriera con i tre anni finali alla Sampdoria, in seguito prova anche a fare l’allenatore, vince un Europeo Under 21 con la Spagna nell’86, guida pure l’Inter per tre volte, mai in modo epocale, nel ‘74, nel ‘92, nel ‘95. Questo dice l’informazione rapida e superficiale puntualmente diffusa da internet. Ma i dati e le date non riusciranno mai a dire, neppure con la più evoluta Intelligenza Artificiale, di che pasta e di che stoffa fosse l’uomo. L’uomo aveva la grandezza della semplicità. Aveva quel dono difficile ed esclusivo d’essere subito di famiglia, conosciuto da un quarto d’ora sembrava di conoscerlo dai tempi dell’asilo, se non ci fosse il rischio di rovinare tutto potremmo usare a pieno titolo quel termine ormai abusato e snob che è l’empatia. Aveva l’intelligenza fai-da-te dell’uomo leale, diretto, spontaneo. Aveva una sua intelligenza, sì, ma prima di tutto aveva cuore.

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Un altro mondo

Era un’altra Milano, era un altro calcio, ma faremmo prima a dire che era un altro mondo. Un mondo che si metteva nelle mani del Papa Buono e di Kennedy, un mondo che ascoltava i Beatles e i Rolling Stones, un mondo che andava a letto dopo Carosello. Un mondo finito e superato, senza possibilità di ritorni, ma non per questo meno caro e meno prezioso. Oggi perdiamo tempo a chiederci come e se avrebbero giocato quei campioni nel calcio forsennato dei tempi attuali. Ma forse bisognerebbe almeno una volta porci la domanda inversa, come se la sarebbero cavata gli incredibili Hulk e i Robocop del furioso gioco moderno in mezzo a quegli artisti che nascondevano il pallone giocando da fermi. In realtà sono solo divertenti dilemmi senza soluzione, perchè ogni tempo e ogni mondo hanno i loro modi, le loro idee, le loro vie d’uscita. Resta però inteso che su tutti i tempi e su tutti i loro cambiamenti sopravvive sempre, imperturbabile e insondabile, la bellezza del talento. Come quello che dirigeva l’orchestra in quel San Siro là, in quella Milano là, in quel mondo là. Non l’ho ancora chiamato per nome e cognome, dato che la sua storia è infinitamente più grande dell’anagrafe. Non sarebbe nemmeno il caso di specificare, ma dopo tutto una croce bisogna pur metterla: la Luce a San Siro che si è spenta, facendo luccicare di un tenero bagliore l’umidità dei nostri occhi, è quella di Luisito Suarez.


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