Così parlò, lunedì scorso nella sede della Lega calcio, Giuseppe Marotta, 66 anni e mezzo, 48 da dirigente, dal 2010 al 2018 alla Juventus, in seguito all’Inter, oggi in fuga: «Siamo la lepre e dobbiamo schivare le fucilate… Lungi dal pensare che l’Inter sia condizionata da favoritismi, rispedisco queste dichiarazioni al mittente».
Essendo stato indicato - da un Marotta addicted, giornalista di una sensibilità più che sospetta - come il mittente di accuse peraltro mai formulate durante l’ultima puntata di Pressing, ho deciso di stare al gioco.
Non prima, però, di aver ricordato che quando questo giornale segnalò con dovizia di particolari le notevoli difficoltà finanziarie del Gruppo Suning - articoli del sottoscritto e in particolare di Alessandro F. Giudice, un’autorità del settore - lo stesso Marotta non parlò di informazione ma di tentativi di destabilizzazione e il sottoscritto si beccò un simpaticissimo striscione di una trentina di metri davanti a San Siro. Superfluo sottolineare che in seguito molti interisti riconobbero che avevamo ragione.
Proprio in virtù della lunga e stravincente esperienza juventina, la lepre Marotta sa bene come schivare le fucilate. Prima di dichiararsi bersaglio dovrebbe però sentire il tum tum di un Perazzi: chi scambia un complimento per un’insinuazione ha il codone di paglia, vuol mettere le mani avanti. Oppure, più banalmente, ha soltanto pessimi informatori.
A Pressing ho spiegato senza tanti giri di parole che come dirigente Marotta dà 10 a 0 a tutti ed è la verità pura e semplice: è uomo di relazioni istituzionali, di rapporti di alto profilo politico, è presente in Consiglio Federale (unico non presidente di società tra i professionisti) e ha un ruolo spesso decisivo in Lega. Eppoi gestisce come nessun altro i rapporti (telefonici) con i media, condizionandoli con la leggendaria affabilità e talvolta con qualche dritta. Chi lo conosce bene da trent’anni, come il sottoscritto, lo evita da un pezzo, ma solo per la personalissima esigenza di autonomia intellettuale. Insomma Marotta fa il suo mestiere e lo fa benissimo, sono i suoi colleghi che dovrebbero andare a lezione da lui: negli ultimi anni, spariti Moggi e Giraudo, brianzolizzatosi Galliani, ex numero uno assoluto, e impostisi Lotito e De Laurentiis, BM si è ritrovato senza più ostacoli.
E dove non arriva Beppenostro, si presentano gli aficionados. Ieri, per colpire Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, giornale di John Elkann molto critico sul Var, un maturo collega interista votato alla leggerezza si è concesso una battuta del belino su di me per poi correggersi privatamente e tuttavia confermando che Inter-Juve si sta facendo di nuovo caldissima, pur se a ruoli invertiti: l’inchiesta di Torino su plusvalenze e affini ha demolito un management scaltro e pronto a tutto, mentre il neonato sta cominciando solo ora a comprendere dinamiche, tempi e metodi della lotta-scudetto fuori dal campo.
Nel frattempo manca solo che dal fronte nerazzurro sorga il lamento pudico che ha accompagnato per decenni la Signora: «Gli arbitraggi favorevoli - tubavano i cicisbei - producono soltanto un danno d’immagine, non vogliamo aiuti, sappiamo vincere da soli».
Chiarisco che questa non può, né deve, essere considerata una precisazione perché non avevo nulla da precisare. In fondo Marotta è come quel calciatore che detesti da avversario, ma vorresti sempre avere nella tua squadra. Anche se la mia squadra del cuore, il Bologna, finché ci saranno Sartori e Motta potrà farne serenamente a meno.
Secondo Fabrizio Caramagna, principe degli aforisti, anche se l’aquila non c’è più, la lepre sente ancora i suoi artigli nell’aria.