Moratti, una grande famiglia e una passione unica per l’Inter

Papà Angelo comprò il club nel ’55,  che poi arrivò sul tetto d’Europa e del mondo: i ricordi  in un libro senza tempo
Moratti, una grande famiglia e una passione unica per l’Inter
Italo Cucci
13 min

Ho lavorato anni, in tv, con Sandrino Mazzola. Ci siamo trovati bene anche se io cercavo di evitare di dipendere da lui, campione eccellente, dirigente esperto dell’Inter di Massimo Moratti. Finii per trovare con lui l’entente cordiale che avevo con Giacomino Bulgarelli e soprattutto allontanai il sospetto di essere ancora il giornalista tifoso rossoblù che su Stadio aveva creato problemi all’Inter prima del mitico spareggio del ‘64. Tirai fuori anche una ruffiana formula d’amicizia recitandogli a memoria la classica filastrocca nerazzurra: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Milani, Suarez, Corso. La Grande Inter. Gli chiesi anche di aggiornarmi su Milani, l’unico che non avevo conosciuto personalmente, il non-personaggio che spesso nella filastrocca veniva sostituito - sbagliando - da Domenghini e Peirò. Aurelio era entrato sostituendo Di Giacomo, aveva segnato sette gol, uno anche nella finale di Coppa dei Campioni vinta contro il Real Madrid. Un giorno aveva preso una brutta botta ed era sparito.  

Dopo Sandrino, conobbi e legai con altri ragazzi di Herrera, di Angelo Moratti, di Lady Erminia - come veniva chiamata da Nicolò Carosio nelle telecronache di Coppa dei Campioni la mamma di Adriana, Bedy, Gian Marco, Gioia, Massimo e Natalino. Nel tempo, avevo lavorato con Guarneri e Burgnich, arrivati a Bologna il primo come giocatore, l’altro come allenatore. Picchi l’avevo incontrato a Torino quand’era diventato allenatore della Juve e aveva smontato quell’aria da colonnello cubano che mostrava in nerazzurro. Jair me l’aveva presentato un giorno il suo scopritore, Gerardo Sannella, più tardi sbeffeggiato per aver portato alla Pistoiese Luis Silvio, il calciatore\cameriere. Bellissimo l’incontro con Suarez, in tv e a cena, dove scoprii quant’era spiritoso, affabile, così diverso dal tuttagrinta di campo e di spogliatoio. E Corso? Facemmo amicizia a Chieti, quando veniva al Premio Prisco. Sembrava un duro, non amava le interviste, era sempre sul punto di andarsene stanco e annoiato - Brera l’aveva perfidamente definito “participio passato del verbo correre - invece lo conobbi allegro e disponibile, pieno di simpatici amarcord del ‘64: «Quel giorno all’Olimpico - continuavo a passare davanti alla nostra panchina e dicevo a Herrera “Mago, Capra non è un attaccante, non sostituisce Pascutti, rompe le balle a me”, ma lui non capiva…». A proposito, Gian Marco Moratti mi aveva ricordato - finalmente sorridente - che tutti gli anni, finito il campionato, Helenio andava in vacanza lasciando una lista dei desideri: il primo, cedere Corso ad ogni costo. «E a me che non dedicavo tempo all’Inter - ci pensava Massimo - era stato dato un incarico: rivelare ai cronisti che nessuno l’aveva mai chiesto».  

Con Giacinto eravamo diventati amici davvero fin dal ‘66, dopo la Corea, quando lo incontrai per farmi confermare la sua firma sul dossier che Edmondo Fabbri aveva consegnato alla Federazione, un documento firmato da Bulgarelli, Mazzola e fra gli altri da Giacinto dove si diceva che un medico federale prima della partita gli aveva fatto un’iniezione di liquido rosa. Forse erano stati drogati. Ma quei fogli - consegnatimi da Fabbri nel convento di Camaldoli dove si era rifugiato - non servirono a nulla. Intanto, Giacinto mi rilasciava interviste, mi aveva preso in simpatia e quando ci ritrovammo ai Mondiali del ‘74, a Ludwigsburg, successe qualcosa che ci fece diventare amici. Avevo scritto, dopo la sconfitta della Nazionale a Stoccarda, che Bernardini avrebbe dovuto eliminare tutti i big litigiosi, da Mazzola a Rivera, da Chinaglia a Anastasi, tenendo però Facchetti, “il monumento azzurro”. Mi chiamò al telefono: «Perché darmi del monumento? Sono ancora in forma, corro, combatto…». Inutile dirgli che avevo voluto fargli un complimento. Più tardi fui fra i pochi che chetarono Bearzot quando Allodi gli impose di portare Facchetti in Argentina “capitano non giocatore”. L’ultima telefonata di Giacinto la ricevetti mentre ero al Mondiale del 2006, ancora in Germania. Lo sentii stanco, abbattuto, sapevo che stava male ma capii quanto dalle sue parole. Aveva sofferto il ruolo di presidente che gli aveva dato solo pensieri, non riusciva più a capire il nostro mondo dopo Calciopoli. Le sue parole mi strinsero il cuore. Se ne andò a settembre. Con la sua bellezza, signorilità, con la sua eroica tenerezza. 

Arrivato a dirigere il Corriere dello Sport cominciai ad avere con Massimo Moratti un rapporto cordiale che non era mai nato a Stadio, al Carlino, al Guerin Sportivo. In particolare ci avvicinò il suo ruolo di presidente del Comitato per le Olimpiadi di Milano, idea naufragata nel nulla. Finché un editore-tifoso reggiano, Tiziano Pantaleoni, mi pregò di realizzare una storia della famiglia Moratti con l’Inter. Massimo accettò di buon grado, scrisse anche la prefazione dedicata al “nemico” tifoso del Bologna e assieme a Nicola Calzaretta realizzai un bellissimo “Moratti-Inter Album di famiglia” dal quale ricavo oggi, giorno della Seconda Stella, qualche momento della Grande Inter.  

28 maggio 1955: è il grande giorno, quello che cambierà l’esistenza di una società di calcio, già ricca di gloria e di onori, e di una famiglia. Angelo Moratti, 46 anni, rileva la proprietà dell’Inter per una somma che si aggira intorno ai cento milioni. È lui il nuovo presidente nerazzurro, succede a Carlo Rinaldo Masseroni. È un sabato sera, Milano assiste al passaggio di consegne. Sospirato e atteso dal popolo interista. Un po’ meno dal commendator Moratti che fino alla fine aveva confidato in una soluzione diversa. Un accordo di gestione. C’era un fondo di verità nelle speranze di Moratti. Aveva da poco installato una raffineria in Sicilia. Sua volontà e, anche suo dovere, era quello di seguire da vicino l’avvio del nuovo impianto. Invece adesso c’era anche l’Inter... Ma al cuore non si comanda. E una bella fetta del suo cuore era occupato dall’amore per la moglie Erminia che amava il football, tifava per l’Ambrosiana che il marito nemmeno sapeva cosa fosse. Ricorda la figlia Adriana: «L’aveva scoperta, l’Ambrosiana, in una trasferta a Roma, mamma l’aveva portato a vedere la partita, lui si era sentito straniero ma coinvolto tanto che, quando nel Trentasei mamma stava per partorire Gian Marco, tre anni dopo di me, papà le diede una mossa: “Fa’ alla svelta che devo andare a vedere Ambrosiana-Sampierdarenese”. Aspettò la nascita e andò felice allo stadio per annunciare: “Mi è nato un maschio”. Il commendatore ormai da tempo seguiva le sorti dell’Inter. C’era anche lui in tribuna il 6 novembre 1949, quando i nerazzurri batterono il Milan per 6-5, dopo che i rossoneri si erano portati sul 4-1. Una delle partite emblematiche dell’Inter: una rimonta eccezionale per una squadra folle e fantastica. Da amare senza riserve. E quella partita in tribuna papà Angelo aveva portato con sé per la prima volta anche i suoi due ragazzi, Gian Marco, 13 anni, e Massimo che di anni ne aveva poco più di 4 e che ha ricordi confusi. Rivedo un’immagine fuggente e lontana. Davanti a me la gente scattò in piedi urlando, mio padre applaudì, mio fratello mi saltò addosso, abbracciandomi. Forse si stava festeggiando il sesto gol, quello decisivo».  

Grande festa il 16 ottobre 1955 per il primo derby di Moratti presidente. Spalti gremiti e tribuna d’onore invasa dai flash dei fotografi che immortalano un sereno Angelo con un raggiante Gian Marco poco distante, mentre il piccolo Massimo appare un po’ sorpreso da tanta attenzione. Vince l’Inter quel primo derby. 2-1. Gol di Nesti, Nordahl e Lorenzi. Benito Lorenzi detto Veleno impressiona subito Massimo che lo ricorda così: «Veleno? No, non era cattivo, aveva un caratteraccio che in campo si sentiva. Se ne accorgevano anche gli arbitri. Era un buon soldato con tanta grinta e una totale dedizione alla bandiera nerazzurra, fu lui a tirar su Sandrino e Ferruccio Mazzola perché diventassero giocatori d ell’Inter».  

Dopo il primo derby vittorioso a casa Moratti si fa festa, perché l’Inter è veramente un affare di famiglia. Coinvolge tutti, la passione non conosce limiti, né di età, né di sesso. La famiglia, un concetto che ritorna. Un modello che Moratti fa suo anche nel suo nuovo ruolo di presidente di una squadra di calcio. I giocatori come suoi figli. Ai quali vanno amore e rispetto, ma anche insegnamenti e disciplina. Oltre alla richiesta del massimo impegno e onore per la maglia che si indossa e per i tifosi che trepidano. Un meccanismo vincente, che lega ancora di più i giocatori tra di loro e con il loro presidente che diventa così parte attiva della squadra. La Beneamata. L’Inter è squadra che seduce, ma che può anche abbandonarti all’istante. Le prime stagioni sono travagliate. Nessuna vittoria, un tourbillon di allenatori che si alternano sulla panchina nerazzurra e qualche polemica di troppo. Angelo è pensieroso. Pensieri che arrivano anche a minare il suo entusiasmo e che lo inducono, per il senso di giustizia che governa le sue azioni, anche a proteste clamorose, come quando decide di schierare la formazione dei ragazzi contro la Juventus nel giugno 1961. La sconfitta è pesante (9-1) per una protesta che fa rumore e lascia il segno.  

Un segno storico perché avvelena – forse per sempre – il Derby d’Italia e raffredda anche i rapporti fra le due famiglie, Agnelli e Moratti. Anche se Massimo parla di «rispetto reciproco e anche d’amicizia. Sempre rivali, però. Con Umberto, ch’era stato compagno di università di Gian Marco, diventato prima presidente della Federazione poi della Juve, abbiamo avuto scontri durissimi, ma veniva lo stesso a mangiare a casa nostra».  

Già, Umberto Agnelli, come dire l’origine di una sfida calcistica senza fine e lui, il Dottore, non Gianni l’Avvocato, provocatore della Guerra dei Due Secoli. Che continua. Ma adesso - archiviate le battute spiritose di Peppino Prisco alle quali Boniperti rispondeva con un silenzio vittorioso - Massimo Moratti pensa ad altro, si gode l’Amarcord della Grande Inter e della prima Stella insieme al forte contributo dato per conquistare la seconda. E non abbandona la “sua” Inter, se non altro perché ha un ottimo rapporto con la famiglia Zhang, in particolare con Steven che gli fu affidato al suo arrivo a Milano. Dispensa consigli e pacche sulle spalle, pochi giorni fa si è fatto vedere in visita ad Appiano nel bel mezzo della crisi finanziaria dei cinesi. La spiegazione? Un giorno mi disse: «Perché la famiglia è stata sempre dietro l’Inter anche quando non c’era». Accompagnando altri presidenti alla conquista della Seconda Stella. «La Prima - racconta orgoglioso “Inter-calcio” - è nata alla fine del campionato 1965/1966 con il decimo scudetto. In campionato l’Inter si era confermata squadra solidissima e replicava il successo della stagione precedente, conquistando così il diritto di fregiarsi della stella dorata riservata ai vincitori di dieci scudetti. Alla fine del Girone di andata guidiamo la classifica, precedendo Milan, Napoli e Juventus. Vinciamo il campionato con una giornata di anticipo, a 50 punti, con ben settanta gol segnati». Si tratta del massimo assoluto, che può ben rispondere alle critiche di “gioco utilitaristico” del periodo. Già. Quando si parla di Catenaccio tutti pensano a Rocco e al suo Milan catenacciaro con quattro punte, ma Helenio Herrera non gli fu da meno. Come tanti anni dopo Mourinho.  

I “giochisti” di oggi - fortunati che non c’è più Brera - sanno che con l’Inter, Beneamata o Pazza, non possono recitare poesie guardiolesche. Proprio con Angelo Moratti nasce e si concretizza la Grande Inter dei tre scudetti, delle due Coppe dei Campioni e delle due Coppe Intercontinentali. Durante la sua presidenza ebbe collaboratori importanti come Italo Allodi, Peppino Prisco, Franco Servello, Arrigo Gattai e Fortunato De Agazio. Altri tempi. Ma «una volta interisti, interisti per sempre». 


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