La normalità del fenomeno

La normalità del fenomeno© EPA
Ivan Zazzaroni
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Normale vuol dire normale, cioè niente, è la conclusione di un ventiduenne che fa cinema. Nel calcio, nel nostro, normale è che la Juve vinca grazie a Ronaldo - undici gol nelle ultime sette partite, sedici nelle prime venti, come soltanto Sivori sessant’anni fa - e si riconosca facilmente nella fuga scudetto, la prima stagionale: i punti di vantaggio sono quattro sull’Inter e sei sulla Lazio che a inizio febbraio recupererà la partita col Verona all’Olimpico. Normale è continuare a ripetere che la Juve di Sarri vince grazie ai colpi, alle giocate dei campioni, più che attraverso il gioco. Normale vuol dire normale, cioè niente: dopo un primo tempo assai noioso, ecco il guizzo; e dopo l’1-1 di Cornelius, un altro guizzo, ed ecco il risultato finale. Sarri non è e mai sarà Allegri, eppure la condanna alla vittoria li avvicina notevolmente. Normale per Conte è l’Inter «se non andiamo a 200 all’ora». Giudizio volutamente severo: l’Inter non è normale, è forte. Non fortissima. Per andare a 200 l’Inter, più di altre, ha bisogno di campo, di metri, ovvero della possibilità, dopo aver recuperato il pallone verosimilmente col pressing alto, di ripartire in velocità (Lautaro, Candreva) oppure di potenza (Lukaku), o ancora sfruttando gli inserimenti dei centrocampisti (Brozovic, Barella, Sensi). Le servono il campo e i metri che Liverani ha cercato in tutti modi di restringere e ridurre puntando su un insolito 5-3-2: in sostanza ha costretto l’Inter alla partita che non ama, le ha lasciato il copione meno naturale. Conte è alla ricerca di una perfezione difficilmente raggiungibile il primo anno, e non ne farei soltanto una questione di “soldini”: gli acquisti di Young, Giroud e Eriksen rispondono alla necessità di avere sempre di più, più qualità e più esperienza pret à porter. Conte è peraltro pagato tanto per vincere, non per arrivare secondo. Normale non è la Lazio. La Lazio è calcio inseguito, crescita ottenuta. Ha momenti di gioco esaltanti: vedendola manovrare, recuperare, affannarsi, attaccare, ne si respira l’unità. Inzaghi sta legando in un unico destino giocatori per caratteristiche tanto lontani sotto ogni profilo, quanto straordinariamente complementari. Bisognosi uno dell’altro: Immobile di Luis Alberto, Milinkovic di Leiva, Caicedo di Immobile e Lazzari, tutti di tutti.

Anastasi, chi era veramente

Ho letto e ascoltato tante belle cose su Anastasi, morto venerdì a 71 anni. Giornalisti, ex compagni, amici da una vita o da tre giorni - hanno raccontato il calciatore, la modernità del suo gioco, il senso e il tema delle radici; suo figlio Gianluca non si è spinto oltre il momento del dolore: lo stesso pudore e la stessa dignità del padre. Due parole le aggiungo anch’io. Venerdì mattina un messaggio di Anna, la moglie, mi aveva anticipato la fine di Pietro e informato della decisione che aveva preso: «Ha scelto di farsi sedare, ora dorme in attesa che venga la sua ora, mi ha detto di salutare da parte sua tutti quelli che gli hanno voluto bene». Pietro non voleva pesare sui suoi cari. Lui sapeva amare incondizionatamente. La famiglia, la Juve e il mondo. Era un uomo forte e sensibile, semplice, delicato ma anche diretto. L’amicizia e la passione per il bianconero i valori che ha coltivato senza un solo ripensamento, né un dubbio: aveva la sigla della Champions come suoneria del cellulare e sogno da realizzare attraverso la squadra del cuore. Queste le ultime parole che ha rivolto («con quel poco fiato che gli era rimasto») a Saverio “Rino” Del Fiore, l’amico di sempre: «Rino, io non ho più molto tempo, perciò voglio ringraziarti per tutto il bene che mi hai voluto e per essermi stato sempre vicino. Ora non piangere, guarda che se lo fai non ti chiamo più». Il suo nome ripetuto ieri sera più volte allo Stadium un omaggio che l’avrebbe emozionato. Oggi, a Varese, dove aiutò a crescere il giovane Beppe Marotta, l’ultimo addio. A Pietro abbiamo dato molto meno di quello che avrebbe meritato. Lui non ha mai chiesto nulla.


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