Juve, ma il processo non è la cura

Juve, ma il processo non è la cura© ANSA
Alessandro Barbano
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«La Juventus è quotata in Borsa, è della famiglia Agnelli. Vuoi che succeda il finimondo per due stipendi?». La battuta di Fabio Paratici a Leonardo Bonucci, intercettata dalla Procura di Torino e adesso agli atti di quella federale, non racconta solo la sventatezza di un dirigente sportivo inadeguato alle responsabilità che ricopre, né solo l’albagia di un potere che si pretende inattaccabile. In queste parole c’è di più. C’è la percezione diffusa, nella classe dirigente del calcio, di stare in una zona franca, nella quale le regole che valgono altrove, cioè nel Paese, qui sono sostituite dai sotterfugi. Faremmo un torto alla nostra onestà intellettuale se pensassimo che questa percezione fosse un’esclusiva juventina, ancorché la storia degli illeciti calcistici in Italia dimostra che spesso allignano e crescono dentro un’egemonia. Tuttavia ciò che offre sponda agli inquinamenti è la doppiezza che fa del calcio un unicum, in cui convivono il massimo di proiezione finanziaria con il massimo di cultura feudale.

Non si tratta di un fenomeno solo nazionale. L’assedio dei petrodollari arabi alle roccheforti europee del pallone ha fatto saltare da tempo i vincoli del fair play finanziario, che è l’equivalente del patto di stabilità in sede sportiva, attraverso sponsorizzazioni tanto generose quanto fittizie. L’effetto è stato quello di drogare il mercato, portando gli stipendi dei nuovi fuoriclasse a una distanza siderale da quelli pagati agli onesti compagni delle serie professionistiche. La libertà dei contraenti di una campagna acquisti è diventata arbitrio, senza che fosse possibile ristabilire una relazione credibile tra il valore sportivo di un cartellino e la sua quotazione.

In un simile contesto globale, tenere in equilibrio l’economia nazionale del calcio pare quasi velleitario. L’esperienza dimostra che tutti i tentativi di ingabbiare gli spiriti animali di un mercato selvaggio si rivelano fallimentari, che si tratti di un tetto ai salari o piuttosto di un calmiere agli investimenti. Eppure è necessario governare una crisi di crescita che negli ultimi due decenni ha fatto del calcio la più grande e condivisa fabbrica di emozioni del pianeta, coinvolgendo in questo universo di passione Africa e Asia, non più come comparse ma come protagoniste. Lasciare fuori controllo un sistema in crescita esponenziale vuol dire esporlo al rischio di una guerra mondiale, un conflitto tra appetiti globali di cui la sfida della SuperLega è stato il primo assaggio. Le istituzioni con cui il pallone ha regolato fin qui i suoi conti sono strutture tecnocratiche primitive, fondate su regole democratiche inadeguate, rappresentate da leadership senza smalto, quando non imbarazzanti. Il calcio è un gigante cresciuto in deroga a tutti i sistemi in cui pure si inscrive la sua storia. In deroga allo sport, anzitutto, i cui valori di lealtà sono contraddetti da troppi esempi negativi, in campo e fuori. In deroga al mercato, per la sua tendenza a rappresentarne insieme gli eccessi e le opacità. E in deroga alla stessa democrazia, per la difficoltà a riconoscersi, in tutte le sedi, nazionali e globali, nelle sue regole, archiviando storici conflitti di interesse.

In questo scenario il processo contro la Juve e le società con essa coinvolte può rivelarsi una sagra dell’ipocrisia, o la prima di una serie di rappresaglie, se le istituzioni del calcio, e cioè Lega e Federazione, non faranno un onesto esame di coscienza, riconoscendo che le plusvalenze fittizie sono una malattia che non risparmia nessuno degli attori in campo. Per curarla non servono ristori, né vantaggi fiscali per gli acquisti di stranieri, ma piuttosto il contrario, e cioè il recupero di una dimensione manifatturiera smarrita, che privilegi in tutti i modi possibili l’investimento nei vivai, e una nuova trasparenza, frutto non di regole da violare o da eludere, ma di sana cultura sportiva. Si facciano pure i processi, ma nessuno s’illuda di curare il calcio con la giustizia. Questo errore l’hanno già fatto la politica e la società, non a caso fanno i conti con una democrazia giudiziaria.


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