Juve, la leadership oltre l’egemonia

Alessandro Barbano
4 min

L’idea che alcune crisi cessino solo toccando il fondo è un luogo comune, a cui però talvolta la storia s’incarica di conferire una qualche verificazione. La parabola rovesciata della Juve non si sottrae a questa regola. Dalla sommità dei nove scudetti consecutivi all’abisso dei giorni nostri, sappiamo che cosa è accaduto e perché. Il crack bianconero è l’effetto di una risposta sbagliata a due fenomeni. Uno, esterno, è la sfida dei petrodollari al mercato del calcio europeo. L’altro, interno, riguarda le ambizioni di un azionista a cui non basta più vincere in casa. I due fattori, mal gestiti, spiegano il capitombolo del club. Da Ronaldo in poi la strategia diventa scommessa. Scommessa velleitaria, perché il portoghese è un cavallo strapagato, ma non è più il cavallo che vince da solo. E dopo Ronaldo, l’urgenza di rialzarsi induce all’errore di chi speri di rifarsi in una sola mano. E così sbaglia due volte, puntando ancora una volta su cavalli sovrastimati e a fi ne corsa, invece di ricostruire una mandria di puledri. Il resto sono pezze a colori, che siano le famigerate plusvalenze o i più innocenti passaporti di Perugia.

Dal fondo si rifonda, a patto di avere una strategia in cui l’ambizione stia in equilibrio con il realismo. Vuol dire in primo luogo fare una ricognizione delle risorse reali, censite dalla ragione. Alla Juve restano gli sponsor maggiori e il fatturato più alto tra le società italiane. Fanno almeno 400 milioni di euro, cioè un terzo di più rispetto ai ricavi delle rivali milanesi. E resta il primato del tifo. Un italiano su tre che ami il calcio è juventino. È una riserva simbolica non priva di valore. A patto di trasformare l’egemonia in leadership. Che vuol dire? Vuol dire che il club bianconero ha vinto sfruttando a proprio vantaggio le posizioni di forza di cui godeva, ma rinunciando a rappresentare le sorti del sistema calcio nel suo complesso. Ha vinto contro tutti, meno per tutti. Questa solitudine le ha impedito di attivare sinergie senza le quali oggi è impossibile esportare la vittoria oltre i confini nazionali.

La Juve ha bisogno del calcio italiano almeno quanto il calcio italiano ha bisogno della Juve. Una logica di mutua reciprocità è nell’interesse di tutti. E tra questi certamente Milan e Inter, ma anche Roma e Napoli. Far crescere il sistema nel suo complesso, riformare i campionati, disboscare i corporativismi che si annidano in alcuni settori, come l’arbitraggio, e che hanno un impatto negativo spesso sottovalutato, costruire e vendere uno spettacolo trasparente, dargli una cifra stilistica e culturale, investire sul rilancio della Nazionale che, più di tutti, rappresenta il marchio del Paese, sono obiettivi più importanti di un singolo scudetto o di una singola trattativa di mercato. Trasformare l’egemonia in leadership vuol dire per la Juve diventare in un certo senso il Bayern italiano, cioè mettere al servizio dell’intero sistema il patrimonio di successi, ma anche di esperienze e di relazioni di cui gode una società storica. Il contrario di avviare una trattativa carbonara come quella della SuperLega, progettata e raccontata come una sorta di autoesilio dei più forti, ma anche dei più politicamente inadeguati. Dall’epilogo buio dell’era Agnelli arriva per il club e per la holding che lo rappresenta un segnale importante: la Juve non vince se rinnega la sua identità, ma se ne riconosce i limiti e li corregge attraverso alleanze tra debolezze diverse. Cali il sipario sull’egemonia respingente e inizi la stagione di una leadership cooperativa.


© RIPRODUZIONE RISERVATA