L’Europa per essere vera Juve

Contro lo Sporting il desiderio di ribadire la propria dimensione internazionale: è il palcoscenico giusto per tutti i suoi campioni
L’Europa per essere vera Juve© ANSA
Marco Evangelisti
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LISBONA (Portogallo) - (dall’inviato) Fuga dall’inverno, sulla luce dell’oceano e sul tepore della primavera che qui sta già difendendosi dall’estate. E fuga anche dai cavilli, dalle sottigliezze, dai trabocchetti del campionato, dalle squadre che non si scansano più anche perché non lo hanno mai fatto, era tutta fantasia metropolitana. Timore reverenziale, al massimo. La Juventus sin qui ha giocato l’Europa League come si gioca una carta di blocco, per difendere il mazzo e guadagnarsi una via d’accesso secondaria alla Champions League, dato che la strada maestra era e potrebbe tuttora essere interrotta da una colata di punti di penalità. Da questa sera, nel ritorno dei quarti davanti allo Sporting Lisbona - e per carità, da queste parti non aggiungete mai il nome della città sennò si offendono - comincia invece a giocare per giocare, per una semifinale di prestigio, per il proprio nome, per la propria reputazione, perché ce lo chiede l’Europa e l’Europa non smette mai di chiamare, anche se la sua voce si fa flebile.

Un trofeo degno della Juve

Allegri sembrava non udirla, la voce dell’Europa League. Ieri ha ribaltato idea e prospettiva. Non più coppa surrogata, bensì trofeo degno del passato e del presente della Juventus. Non aveva l’aria di mentire, quando lo ha detto. Perlomeno non spudoratamente. È come se il suo club, investito dal fato, avesse superato il fiume che lo separava e lo proteggeva dalla plebe calcistica e fosse venuto ad abitare tra gli altri. Quelli che quando sentono odore di trofeo non si voltano dalla parte opposta a naso in su e labbra arricciate, ma spalancano gli occhi e seguono la pista. Tutti gli altri, insomma. Una Juve normalizzata, cosciente di appartenere al mondo dei mortali e dunque a maggior ragione orgogliosa della propria dimensione internazionale. Che non è più un patrimonio personale da nascondere agli occhi altrui in un deposito sigillato. È invece un bene da mostrare, lucidare e investire. E da proteggere dalla svalutazione e dall’entropia. E soprattutto da rimpinguare. L’ultimo trofeo è l’Intertoto del 1999, e non dite che non vale. Oppure ditelo, e allora dobbiamo tornare alla Champions, alla Supercoppa e all’Intercontinentale del 1996. Esattamente trent’anni fa, inoltre, la Juve fece sua la Coppa Uefa, antesignana dell’Europa League attuale se proprio vogliamo sovrapporre tempi e schemi di pensiero differenti.

Il minimo vantaggio

Una Juve normalizzata anche nel più banale dei modi: la Juve che non molla niente, Merckx o Coppi che si alza sui pedali a ogni cavalcavia, al guinzaglio della sua leggenda. Non è un caso se Allegri ha passato la serata di ieri e probabilmente la mattinata di oggi a meditare sul modo migliore di affrontare lo Sporting. Che corre, preme sui portatori di palla e ancora più freneticamente lo farà stasera nel suo stadio. Per poi avvolgere il centrocampo avversario in una rete di tocchi e infine puntare rapido verso la porta. C’è un gol da difendere e il modo migliore per riuscirci è non farsi illudere da sicurezze volubili. Meglio portare il nocciolo della questione nella metà campo dei portoghesi. Per questo l’allenatore meditava seriamente sull’impiego immediato di Chiesa, a costo di dover rimodellare completamente l’impianto tattico di cui maggiormente si fida. Il nuovo coraggio sbarazzino della Juve, gioia di vivere in mezzo agli altri, è riassunto in Szczesny, che torna in campo una settimana dopo essersi sentito mancare il cuore. La paura che sparisce insieme con la supponenza. Un club leggendario che riscopre la gioia di vincere qualcosa dopo aver rischiato di perdere tutto.


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