Juventus, cent’anni di solitudine (in alto)

Un estratto dal libro "1923-2023 Agnelli Juventus. La famiglia del secolo" di Italo Cucci e Nicola Calzaretta - foto di Salvatore Giglio (Reverdito Editore)
Italo Cucci
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Dal libro "1923-2023 Agnelli Juventus. la famiglia del secolo" di Italo Cucci e Nicola Calzaretta - foto
di Salvatore Giglio (Reverdito Editore):

Non è necessario esser tifosi della Juventus - dagli ossessionati ritenuta una colpa - per riconoscerne l’immenso valore storico. Non è un caso che trent’anni fa ho ribattezzato la Signora “Odiamata”, riconoscendole comunque una valenza particolare. Nel bene come nel male. Mi è piaciuto poi, nella pratica personale e professionale, adottare la formula che Michel Platini - juventino storico - ha adottato quand’era presidente dell’Uefa: RESPECT, RISPETTO.

Nel mio lungo viaggio di giornalista nel mondo del calcio ho vissuto almeno metà del secolo juventino e ho imparato a viverne le imprese con rispetto, anche nei momenti difficili, o troppo facili, quando sul carro dei vincitori salivano e continuavano a sgomitare i critici folgorati dalla ricchezza e dalla potenza. Nove scudetti consecutivi fanno più miracoli di Sant’Antonio. Mentre io ero conquistato dall’esemplare Italianità di un club che non era mai stata messa in discussione, ai miei tempi, neppure da Praest, Charles e Sivori, quest’ultimo presto trasformato in connazionale giusto per cogliere al volo il primo Pallone d’Oro Made in Italy.

Tutto quello che ho in comune con la Juventus - ho scritto in un bel libro dedicato alla Signora, “La favola della Juventus” - gira intorno a lui, Omar, e al suo mentore, Umberto Agnelli che, giovanissimo presidente bianconero, lo aveva voluto su indicazione di Renato Cesarini, che pure conobbi, ammirevole gentleman, fumatore molto snob di sottili Turmac e Muratti’s. Potei apprenderlo di persona quando un maestro, il Conte Alberto Rognoni, mi permise di conoscere a Cesenatico, al suo capanno sul porto, il Dottore in persona, Umberto Agnelli, appena cinque anni più di me - giovanotto avventuroso - e già mito, presidente della Juve e della Federcalcio. Umberto, trent’anni dopo, tornato presidente della Juve, mi invitò più volte a Torino quando c’era maretta e capii molto del suo stile, ch’era sì personalissimo ma al tempo stesso coerente con lo stile Juve, fascinosamente ferreo. Poi conobbi anche Boniperti, a una battuta di tiro al piccione in Adriatico, con Gianni Brera che gigioneggiava, Orfeo Pianelli che latineggiava e lui, Giampiero, che sorrideva silenzioso e colpiva il bersaglio. A lui puntavo, da impunito cronista d’assalto, perché uno non poteva fare il giornalista, negli anni Sessanta, senza conoscerlo, senza nutrirsi dei suoi silenzi. Giampiero era attore di teatro. Un giorno Aldo Bardelli – il mio capo che se l’era portato al Mondiale del Brasile nel 1950 quand’era CT della Nazionale – mi disse “Vorrei un’intervista a Boniperti”. Gli telefonai, non mi disse niente. Riferii a Bardelli: “L’ho chiamato, mi ha risposto, poi le domande le ha fatte lui”. “Bene - mi rispose l’impietoso capo - faccia un bel pezzo”. Non ci credevo. Ma feci un bel pezzo che circola ancora sul web.

Come ho detto, non è necessario essere juventini per avere in testa - non con sussiego ma certo con rispetto o addirittura simpatia - la Vecchia Signora. Chi ama il calcio ne ama i campioni. La Juventus è una fabbrica di campioni, perciò votata al successo, checché possano dirne gli avversari. Spesso rosicando. L’unico che forse le ha reso difficile la vita, - ho scritto e detto tante volte - Silvio Berlusconi, divenuto presidente del Milan mentre l’Inter accusava qualche problema e Gianni Agnelli usciva di scena, disse rispettoso: «La Juventus ha la cittadinanza al primo posto in Italia, i suoi giocatori entrano in campo con la convinzione di esserne i padroni e in questo gioco è fondamentale». Un discorso sulla qualità. Così bene inteso in Casa Juve che di lì a poco i migliori giocatori del mondo tornarono a sognare la Signora e molti la conquistarono. O si fecero conquistare.

Il discorso riguarda, in particolare, Michel Platini, forse l’unico calciatore che abbia avuto con la Juventus un rapporto paritetico. Anche di più. Lui champagne, Boniperti spumante. Un giorno - era il 1988, riporto dalla “Favola”, libro animatissimo dagli juventini - insieme a Salvatore Giglio, l’autorissimo di questo libro - uno dei più grandi fotografi del mondo nato insieme al “mio” Guerin Sportivo, così ricco d’immagini e di colori - realizzammo su richiesta di Giovanni Cobolli Gigli, ceo della Mondadori, un capolavoro dell’editoria che per anni - scherzando ma non troppo - chiamammo “L’Abc del calcio italiano”: il titolo vero era “JUVENTUS 10 ANNI IN BIANCONERO” e - udite udite - con prefazione di Giovanni Agnelli, introduzione di Giampiero Boniperti, testi di Italo Cucci. Tutto per onorare le splendide foto di Giglio. E qui siamo, con questo straordinario libro che poco s’avvale delle mie note perché il repertorio fotografico è unico, sensazionale, parlante più delle mie chiacchiere. Che tuttavia da quella panchina che identifica la culla della Juve rinnovano più antichi sentimenti coltivati da direttore del “Guerin Sportivo” nella sua stagione più bella, quella del mitico Trap che vinceva a manbassa e mi faceva vendere milioni di copie.

Alla vigilia di Spagna 82 festeggiai a Torino i settant’anni del Verdolino che lì era nato nel gennaio del 1912 dalla fantasia e dal coraggio di Corradino Corradini, Ermete Della Guardia, Mario Nicola, Nino Salvaneschi, Giuseppe Ambrosini e Alfredo Cocchi. E del tuttofare di redazione Carlin Bergoglio. Ci ritrovammo al vecchio Bar Norman - se ben ricordo, - con Giampiero e Orfeo Pianelli, orgogliosi della “piemontesità” del foglio. Molti anni prima avevo conosciuto l’uomo che rendeva sicura la prima conduzione Fiat e Juventus di Giovanni Agnelli, l’ingegner Vittorio Valletta: ero con lo zio prete salesiano che riceveva da Valletta una donazione straordinaria, macchinari costosi per i collegi che ospitavano scuole tecniche. Quel giorno appresi che anche i laici attribuivano a don Bosco la nascita dello sport torinese, calcio compreso. Tutto era cominciato con l’Oratorio, dove trovavano accoglienza i ragazzi perduti della Torino pre-industriale; anni dopo, aperta la Casa Salesiana di Buenos Aires, lì spesso venivano individuati i futuri campioni argentini portati in Italia.

Della Juventus ho un altro ricordo importante, legato alla famosa invettiva di Giulio Onesti contro i “ricchi scemi” accusati di avere provocato nel 1958 la prima esclusione della Nazionale dai Mondiali, per l’occasione in Svezia. Disse il presidente del Coni - e Malagò potrebbe ripetere oggi il suo appello - «La Nazionale di calcio rimane la più fiacca e mediocre rappresentativa che lo sport italiano possa esprimere in qualsiasi settore. Il nostro Paese è depresso economicamente, ma diventa l’eldorado per gli atleti stranieri. Ciò conferma ancora la crisi del nostro calcio, che non sa produrre calciatori, e la leggerezza di certi dirigenti di società che si fanno guidare dal tifo, cioè da un impulso irrazionale. Eppure tra questi dirigenti vi sono spesso degli operatori economici che si ingegnano, con assiduità e intelligenza, per creare nuove possibilità di lavoro alle aziende e ditte a cui presiedono. È ammissibile che, nel medesimo tempo, essi importino lavoratori dall’estero a condizioni folli? E come si conciliano le spese da nababbi con le disastrose situazioni dei bilanci delle società? Oggi, noi ci facciamo ridere dietro da mezzo mondo, come i ricchi scemi del calcio. E come se ciò non bastasse, è venuta fuori la trovata dell’oriundo, che ha ormai una sua letteratura. Nonostante una simile profusione di mezzi e di invenzioni, il calcio italiano è stato escluso dalla Coppa del Mondo 1958»

Molti anni dopo ebbi conferma che il durissimo proclama non riguardava la Juventus. Che in quei giorni vinceva il suo decimo scudetto, quello della prima stella voluta da Umberto.


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