Gigi Maifredi esclusivo: “Cosa c’entro io con Motta?”

Da più di trent’anni gli fischiano le orecchie, ogni volta che  un allenatore della Juve sbaglia la stagione si torna a lui, che si ribella al paragone: "Avevo solo 14 giocatori..."
Gigi Maifredi esclusivo: “Cosa c’entro io con Motta?”
© Getty Images
Ivan Zazzaroni

 «Ti do degli spunti, ma se dici che sono di Gigi Maifredi è come se bestemmiassi». 

Da oltre trent’anni fallimento alla Juventus si pronuncia per comodità Gigi Maifredi. Lui ci ha fatto il callo e oggi ne sorride: «È il limite di certi giornalisti sportivi», spiega. «Da mesi vengo associato addirittura a Motta, ma cosa c’entro io con Motta? Io avevo quattordici giocatori e due stranieri, anziché tre. Nelle prime venti partite eravamo primi o secondi, la situazione precipitò a febbraio, a Genova con la Samp, dove nel primo tempo avevamo giocato un calcio eccezionale». 

 

Cosa accadde lo sappiamo. 
«Il buon arbitro Amendolia concesse un rigore da radiazione immediata. Galia anticipò Mancini che cadde in area. Vialli, 1 a 0. Lì mi accorsi che la società contava poco politicamente».  
 
Beh, e per un rigore bastardo... 
«In precedenza, dopo la partita col Cagliari che avremmo potuto vincere 8 a 0 e invece finì 2 a 2, m’ero incazzato di brutto, avevano organizzato le vacanze di Natale senza dirmi niente. A tavola avevo anticipato a Montezemolo che me ne sarei andato a fine stagione. Personaggio straordinario, Montezemolo, ma era troppo impegnato a fare altro. Lo vedevo la domenica alla partita». 
 
Ricordo che a un certo punto, per disperazione, abiurasti perfino la tua, cara zona. 
«So che vi ho obbligato a giocare a zona, dissi ai giocatori, se volete tornare a uomo col libero sono disposto ad accontentarvi». 
 
E loro? 
«In delegazione mi chiesero di cambiare. Perdemmo il derby 2 a 1 con errori difensivi assurdi, il libero lo fece Fortunato che era abituato al ruolo». 
 
Fosti davvero tu a rompere? 
«Cercatevi un altro, le mie parole esatte. Io sono di Lograto, non ho un quoziente d’intelligenza altissimo, feci uno sbaglio. Ma Motta...». 
 
Ma Motta? 
«Ha trenta giocatori, uno più bravo dell’altro, ha sbagliato a voler portare a Torino il calcio che aveva mostrato a Bologna. Dove aveva Aebischer, Freuler e Ferguson, un centrocampo di altissimo livello intellettuale e molto ricettivo. Gli interscambi con quei tre venivano naturali. Locatelli è un ottimo giocatore, Koopmeiners io lo amo, ma è un pesce fuor d’acqua. Thiago avrebbe dovuto sposare una strada nuova anche perché gli sono cambiati addosso gli obiettivi e le aspettative». 
 
Vuoi dire che forse gli avrebbe giovato un passaggio intermedio? 
«È evidente che in una società come la Juve le logiche e i ritmi sono molto diversi. Con il senno di poi, posso dire che anch’io avrei avuto bisogno di allenare per un paio d’anni una squadra a metà fra il Bologna e la Juventus. Mi voleva la Roma, se ci fossi andato avrei cominciato a capire l’andazzo generale e, una volta alla Juve, avrei potuto fare qualcosa di più, anche perché nella mia testa c’era la possibilità di cambiare il gioco, che era la ragione per cui mi avevano scelto. La proposta, io volevo dominare. In quegli anni Gigi Maifredi andava molto di moda». 
 
Brutta bestia, la Juve. 
«La prospettiva di allenarla ti fa perdere il senso della realtà e dell’orientamento. Venivo da una serie infinita di vittorie e non avevo messo nel giusto conto le difficoltà che avrei incontrato. Non escludo che lo stesso sia successo a Motta, anche se lui, a differenza mia, il grande calcio l’ha conosciuto da giocatore a diciotto anni». 
 
A Torino perdesti il tocco magico, insomma. 
«Tanti si sono attaccati alla Supercoppa, al 5 a 1. Ma in quell’occasione avevo deciso di far giocare la squadra della stagione precedente più il mio Baggino e Hässler. Tacconi prese quattro gol da portiere di terza categoria. Il tocco magico, dici? Buttata a mare la grande occasione per mia stupidità, ho continuato ad allenare. Per i soldi, per guadagnare, non per insegnare. La testa era da un’altra parte». 
 
Stupidità, hai detto? 
«Aereo, prima fila, quattro posti. Montezemolo, Romiti, Gigi da Brescia e l’Avvocato Agnelli. Che mi offre un triennale». 
 

Lo rifiuti. Per stupidità, giusto? 

«Un anno alla volta, rispondo. Non voglio restare a dispetto dei santi, se le cose andranno male. Lui mi dà una lezione: “Vuol dire che lei Maifredi molla tutto quando sta affogando?”. All’Avvocato parlavo come sto facendo con te».  
 
Ma tu ed io non ci diamo del lei... 
«A tavola mangiava un gamberone. Gli chiedevo: “come fa a vivere con un solo gamberone?”. Mai che abbia sorriso una volta. Ti racconto questa. Sono a Roma per gli Internazionali di tennis, la mia passione, mi invita nel suo appartamento vicino al Quirinale, penultimo piano di Palazzo Mengarini, se non ricordo male. Ovviamente alle 8 del mattino. Mi accoglie il maggiordomo, appena entro vedo alle pareti un ritratto dell’Avvocato fatto da Warhol, opere d’arte ovunque, espressionisti, futuristi. Insomma, avanguardisti. Noto una bellissima scala di legno e chiedo al maggiordomo: “Chi è l’autore?”. E lui: “Veramente l’avevo messa io per pulire i quadri”». 
 

Un’installazione domestica. Ma cosa c’entra questo con l’Avvocato.  
«Contestualizzo, dài. Arriva l’avvocato e mi fa: “Champagne?”. Alle 8 del mattino? “Cappuccino e brioche?”. Passano tre minuti e si presenta il maggiordomo con un vassoio e trenta brioche di tutti i tipi... Quando sto per andar via lo saluto alla vecchio Maifredi: “Avvocato, scusi, quanto paga d’affitto?”. Niente, non gli strappo neppure mezzo sorriso». 
 
Non che fosse una gran battuta, Gigi. Stai per compiere settantotto anni, dovresti averlo capito. 
«Sessanta, ne dimostro sessanta, anche se ho lavorato tutta la vita». 


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Se si parla di calcio devi tanto a Gino Corioni. 
«Ma se nemmeno mi voleva! Allenavo a Lumezzane dove avevo sostituito Settembrino, i giornali di Brescia avevano cominciato a darmi all’Ospitaletto. Incontrai Corioni che appena mi vide, disse: “Te völe mia!, io non ti voglio. Cominciò a pensare a me soltanto dopo che Damiani mi offrì la panchina del Parma perché Sacchi stava passando alla Fiorentina. Spiegai a Oscar che non avevo ancora il patentino per la categoria e la cosa arrivò alle orecchie di Corioni. Forse fui io stesso a dirgli che avevo avuto sfiga. Mi prese Alfredo Mosconi, non Corioni, lanciò nell’Olimpo l’ex rappresentante della Deserti & C. di Bologna, prodotti di alta gamma. Dove guadagnavo benissimo, la lasciai per partecipare al corso di seconda che si teneva ad agosto». 
 
Mi stai raccontando proprio gli inizi del romanzo. 
«La D & C aveva supplicato tutti di non prendere le ferie ad agosto perché stava partendo la campagna Droste».  
 
La campagna Droste no, ti prego. 
«Mi presentai dalla signora Esmeralda, spiegai il problema, non volle sapere ragioni e io la avvisai che mi sarei licenziato, mi prese per matto... Mesi dopo, titolo del Giornale di Brescia: “Un giovane bresciano primo al corso di Coverciano” dove c’erano Benetti, Bedin e altri ex».  
 
«Gli allenatori di una volta erano meglio di quelli attuali». È roba tua. 
«Gli allenatori di una volta si troverebbero avvantaggiati dai nuovi metodi di preparazione. Tante cose sono migliorate. Mio padre guidava un camion senza servosterzo, né cambio e marce sincronizzate. Con i camion di oggi avrebbe potuto guidare fumando una sigaretta. Gli allenatori di una volta erano più bravi. In giro non vedo il genio». 
 
Sapevi venderti bene. 
«Dici? (Ride, nda) Forse perché avevo lavorato, sempre come rappresentante, alla Stock e all’Alemagna». 
 
Alemagna, non Motta. 
«Niente Motta». 

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 «Ti do degli spunti, ma se dici che sono di Gigi Maifredi è come se bestemmiassi». 

Da oltre trent’anni fallimento alla Juventus si pronuncia per comodità Gigi Maifredi. Lui ci ha fatto il callo e oggi ne sorride: «È il limite di certi giornalisti sportivi», spiega. «Da mesi vengo associato addirittura a Motta, ma cosa c’entro io con Motta? Io avevo quattordici giocatori e due stranieri, anziché tre. Nelle prime venti partite eravamo primi o secondi, la situazione precipitò a febbraio, a Genova con la Samp, dove nel primo tempo avevamo giocato un calcio eccezionale». 

 

Cosa accadde lo sappiamo. 
«Il buon arbitro Amendolia concesse un rigore da radiazione immediata. Galia anticipò Mancini che cadde in area. Vialli, 1 a 0. Lì mi accorsi che la società contava poco politicamente».  
 
Beh, e per un rigore bastardo... 
«In precedenza, dopo la partita col Cagliari che avremmo potuto vincere 8 a 0 e invece finì 2 a 2, m’ero incazzato di brutto, avevano organizzato le vacanze di Natale senza dirmi niente. A tavola avevo anticipato a Montezemolo che me ne sarei andato a fine stagione. Personaggio straordinario, Montezemolo, ma era troppo impegnato a fare altro. Lo vedevo la domenica alla partita». 
 
Ricordo che a un certo punto, per disperazione, abiurasti perfino la tua, cara zona. 
«So che vi ho obbligato a giocare a zona, dissi ai giocatori, se volete tornare a uomo col libero sono disposto ad accontentarvi». 
 
E loro? 
«In delegazione mi chiesero di cambiare. Perdemmo il derby 2 a 1 con errori difensivi assurdi, il libero lo fece Fortunato che era abituato al ruolo». 
 
Fosti davvero tu a rompere? 
«Cercatevi un altro, le mie parole esatte. Io sono di Lograto, non ho un quoziente d’intelligenza altissimo, feci uno sbaglio. Ma Motta...». 
 
Ma Motta? 
«Ha trenta giocatori, uno più bravo dell’altro, ha sbagliato a voler portare a Torino il calcio che aveva mostrato a Bologna. Dove aveva Aebischer, Freuler e Ferguson, un centrocampo di altissimo livello intellettuale e molto ricettivo. Gli interscambi con quei tre venivano naturali. Locatelli è un ottimo giocatore, Koopmeiners io lo amo, ma è un pesce fuor d’acqua. Thiago avrebbe dovuto sposare una strada nuova anche perché gli sono cambiati addosso gli obiettivi e le aspettative». 
 
Vuoi dire che forse gli avrebbe giovato un passaggio intermedio? 
«È evidente che in una società come la Juve le logiche e i ritmi sono molto diversi. Con il senno di poi, posso dire che anch’io avrei avuto bisogno di allenare per un paio d’anni una squadra a metà fra il Bologna e la Juventus. Mi voleva la Roma, se ci fossi andato avrei cominciato a capire l’andazzo generale e, una volta alla Juve, avrei potuto fare qualcosa di più, anche perché nella mia testa c’era la possibilità di cambiare il gioco, che era la ragione per cui mi avevano scelto. La proposta, io volevo dominare. In quegli anni Gigi Maifredi andava molto di moda». 
 
Brutta bestia, la Juve. 
«La prospettiva di allenarla ti fa perdere il senso della realtà e dell’orientamento. Venivo da una serie infinita di vittorie e non avevo messo nel giusto conto le difficoltà che avrei incontrato. Non escludo che lo stesso sia successo a Motta, anche se lui, a differenza mia, il grande calcio l’ha conosciuto da giocatore a diciotto anni». 
 
A Torino perdesti il tocco magico, insomma. 
«Tanti si sono attaccati alla Supercoppa, al 5 a 1. Ma in quell’occasione avevo deciso di far giocare la squadra della stagione precedente più il mio Baggino e Hässler. Tacconi prese quattro gol da portiere di terza categoria. Il tocco magico, dici? Buttata a mare la grande occasione per mia stupidità, ho continuato ad allenare. Per i soldi, per guadagnare, non per insegnare. La testa era da un’altra parte». 
 
Stupidità, hai detto? 
«Aereo, prima fila, quattro posti. Montezemolo, Romiti, Gigi da Brescia e l’Avvocato Agnelli. Che mi offre un triennale». 
 

Lo rifiuti. Per stupidità, giusto? 

«Un anno alla volta, rispondo. Non voglio restare a dispetto dei santi, se le cose andranno male. Lui mi dà una lezione: “Vuol dire che lei Maifredi molla tutto quando sta affogando?”. All’Avvocato parlavo come sto facendo con te».  
 
Ma tu ed io non ci diamo del lei... 
«A tavola mangiava un gamberone. Gli chiedevo: “come fa a vivere con un solo gamberone?”. Mai che abbia sorriso una volta. Ti racconto questa. Sono a Roma per gli Internazionali di tennis, la mia passione, mi invita nel suo appartamento vicino al Quirinale, penultimo piano di Palazzo Mengarini, se non ricordo male. Ovviamente alle 8 del mattino. Mi accoglie il maggiordomo, appena entro vedo alle pareti un ritratto dell’Avvocato fatto da Warhol, opere d’arte ovunque, espressionisti, futuristi. Insomma, avanguardisti. Noto una bellissima scala di legno e chiedo al maggiordomo: “Chi è l’autore?”. E lui: “Veramente l’avevo messa io per pulire i quadri”». 
 

Un’installazione domestica. Ma cosa c’entra questo con l’Avvocato.  
«Contestualizzo, dài. Arriva l’avvocato e mi fa: “Champagne?”. Alle 8 del mattino? “Cappuccino e brioche?”. Passano tre minuti e si presenta il maggiordomo con un vassoio e trenta brioche di tutti i tipi... Quando sto per andar via lo saluto alla vecchio Maifredi: “Avvocato, scusi, quanto paga d’affitto?”. Niente, non gli strappo neppure mezzo sorriso». 
 
Non che fosse una gran battuta, Gigi. Stai per compiere settantotto anni, dovresti averlo capito. 
«Sessanta, ne dimostro sessanta, anche se ho lavorato tutta la vita». 


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