Lazio, festa all'Olimpico per la squadra del ’74: la dedica tra brividi e lacrime

Maestrelli junior in ginocchio, i baci di Oddi e Martini, le figurine extralarge, il volo dell’aquila, il francobollo e la moneta
Lazio, festa all'Olimpico per la squadra del ’74: la dedica tra brividi e lacrime© ANSA
Stefano Chioffi
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Stefano Chioffi

Ogni partita della Lazio di Maestrelli era un evento, come un concerto dei Beatles: una squadra che ha ricevuto il dono dell’eterna gioventù in un mondo che viaggia alla velocità di una mail e divora le mode. Non ha perso luce e colore, nell’immaginario collettivo continua a giocare e a divertire: nella sua storia non c’è il fischio finale di un arbitro e del tempo. Somiglia un po’ alla leggenda dei Fab Four, i mitici ragazzi di Liverpool, che non hanno mai smesso di suonare e cantare. Dopo mezzo secolo conserva il potere di camminare tra la sua gente, di sentirsi parte integrante di un’epoca contemporanea, di farsi raccontare, amare e celebrare. Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico. Una poesia, da ieri anche un francobollo e una moneta. E questo 12 maggio, tra sciarpe e bandiere, cominciato con un’esibizione dei paracadutisti e una preghiera davanti al busto di Tommaso a Tor di Quinto, contiene la bellezza di tanti nonni che prendono per mano i nipoti. È la domenica dei laziali: dei papà, delle mamme, dei figli, delle famiglie. Di un gol, quello di Long John, contro il Foggia, che unisce ogni generazione e compie cinquant’anni. Il boato dell’Olimpico, la voce di Ameri, le facce di una Roma dolce e romantica, Maestrelli che guarda il maxischermo dell’Olimpico e prende coscienza di quello che sta succedendo. Lampeggia una scritta: Lazio campione d’Italia. Un gruppo che, dopo 18.262 giorni, non è rimasto nella memoria solo per uno scudetto, ma per la sua straordinaria diversità.

Uno stadio, un quadro

Sono schierati ancora lì, sul prato, gli eroi del 1974 e gli eredi di chi vive lassù, dentro qualche nuvola. Fedeltà e senso di appartenenza. Sessantamila persone che cantano e piangono. C’è chi manda baci e ringrazia a mani giunte, come Martini, Oddi e Wilson junior. Oppure chi si inginocchia, come Massimo Maestrelli, stesso stile di suo padre. Lo stadio è un quadro. Migliaia di fogli bianchi e celesti compongono una scritta in tribuna Tevere: “Meravigliosa”. E poi gli stendardi con le figurine extralarge dei vecchi campioni d’Italia, il volo maestoso dell’aquila Olympia, la standing ovation della curva Nord. Un cinema all’aperto. È come se questa squadra, ogni sabato, si ritrovasse ancora nel vecchio hotel “L’Americana”, al 13° chilometro di via Aurelia, dove il presidente Lenzini doveva pagare, oltre alle camere e al ristorante, anche le anfore di vetro dei lampioni, bersaglio fisso di una squadra che amava le pistole e i winchester. Vigilie infinite, in attesa di salire sul pullman guidato da Alfredo Recchia, con le cassette di Lucio Battisti nel mangianastri. “Cieli immensi e immenso amore”, che oggi è un’altra delle colonne sonore di chi vive di pane e Lazio. Viaggi scortati sempre dai tifosi: i clacson delle macchine, i colpi di gas dei motorini e delle Vespe. Un rito pagano. Come le partite a carte di Lenzini con Maestrelli, davanti a un caffè e a mezzo bicchiere di vino, in un angolo del solito hotel, “L’Americana”, che ora non esiste più e all’epoca veniva frequentato anche da qualche attore di Hollywood e dal pugile Rocky Marciano, campione dei pesi massimi. La briscola non era l’unica scaramanzia di Lenzini: prima di ogni gara all’Olimpico faceva il giro del campo lanciando dalle tasche della giaccia o del cappotto qualche manciata di sale e chiamava Pulici per tirargli un rigore lungo uno dei corridoi dello stadio. Felice da una parte, il pallone dall’altra, un classico. Quasi una benedizione. Costruttore di successo, dalla Balduina a Pineta Sacchetti: era diventato presidente nel 1965. Lenzini era nato a Huerfano County, contea di Walsenburg, in Colorado, dove i suoi genitori si erano trasferiti partendo da Fiumalbo, nel Modenese, e avevano aperto un emporio: vendevano dai bottoni alle bottiglie di latte. Aveva rischiato, a nove anni, di annegare in un fiume: si era salvato, riportando un taglio sulla testa. Da ragazzo aveva vinto i campionati di atletica leggera nei cento metri e aveva giocato nel ruolo di ala sinistra con la Fortitudo e la Juventus Roma. Per questo motivo adorava la genialità, i dribbling e le finte di D’Amico.

In questa domenica dei laziali, per uno scudetto che ha ispirato libri, documentari e film, c’è anche la gigantografia di Lenzini, pronto a spendere duecento milioni di lire per acquistare nel 1969 Chinaglia e Wilson dall’Internapoli: complessa la trattativa chiusa con Carlo De Gaudio, come raccontava in quelle serate piene di emozioni e sentimenti. Architetto di una squadra che sapeva esprimere un gioco all’olandese: l’aveva costruita insieme con Antonio Sbardella, ex arbitro internazionale e poi direttore sportivo. Era stata loro l’intuizione di prendere Maestrelli e di cedere Massa all’Inter in cambio di Frustalupi, ricevendo da Fraizzoli anche i soldi necessari per comprare Re Cecconi, Garlaschelli e Pulici. Il cerchio perfetto. Un gruppo ruvido come il cemento. Diviso in due clan che non si prestavano neppure il fon a Tor di Quinto, fino alla domenica mattina, e che poi si riconoscevano in un ideale. Qualche protagonista di quella Lazio sfila sulla pista dell’Olimpico attraverso gli occhi e le voci dei loro eredi. Da Andrea Lenzini, il nipote, a Massimo Maestrelli. Da Stefano Lovati, cresciuto con l’eleganza di un monumento come Bob, ad Antonio Sbardella junior. Fino a Gabriele Pulici, nato proprio il 12 maggio del 1974, durante Lazio-Foggia, a James Wilson. Da Matteo D’Amico a Stefano Re Cecconi e Nicolò Frustalupi, il figlio di Mario, al quale il comune di Orvieto ha intitolato una piazza. Manca solo George Chinaglia, lo stesso sguardo di Giorgio, 24 gol nella stagione dello scudetto, che partiva a testa bassa e a volte si ritrovava con la maglia di lana strappata dagli stopper.

Un amore così grande

Una Lazio immensa e dannata. Gioie e tragedie, successi e cicatrici. Cinquant’anni di una formazione che la gente continua a recitare tutta di un fiato. Pulici si presentò ai tifosi della Lazio con una fantastica parata all’incrocio dei pali: era il 24 settembre del 1972, il giorno di Lazio-Inter 0-0. Il tiro era di Bedin. Indimenticabili le entrate in scivolata di Wilson, libero e regista arretrato: la modernità di Krol. Un collage, tra passato e presente. Da Sergio Petrelli, preso da Maestrelli perché nella Roma non legava con Helenio Herrera, a Gigi Martini, lucchese di Capannori, terzino sinistro, pilota dell’Alitalia, velista, appassionato di paracadutismo come Re Cecconi, paragonato per i capelli biondi e la corsa da maratoneta a Günther Netzer, mezzala del Borussia Mönchengladbach. Da Giancarlo Oddi, cresciuto al Tufello e scoperto nell’Almas Roma, “più di un fratello” per Wilson e Chinaglia, sempre con un giubbotto di montone grigio per ragioni scaramantiche, a Franco Nanni, diventato “Bombardino” dopo un gol da fuori area nel derby. E poi Renzo Garlaschelli, dieci gol nell’anno dello scudetto, tornato a vivere a Vidigulfo, seimila abitanti, provincia di Pavia: era il numero 7, il “socio” di Long John.

Quel 12 maggio del 1974 sembra oggi, come fa capire con dolcezza Gabriella Grassi, la segretaria che conosceva a memoria il regolamento federale. Festa scudetto nel locale romano più in voga, al Jackie O’. Balli e risate, fino alla scomparsa dell’Alfetta di Oddi. All’inizio un po’ tutti avevano pensato che fosse stata spinta nella piscina, ma in realtà era stata rubata, insieme con il giubbotto di montone. Giancarlo, mezz’ora dopo, era al commissariato per denunciare il furto. Diciotto mesi di differenza con Chinaglia. Si erano conosciuti nel 1968 durante il militare, nel cortile di una caserma, alla Cecchignola. Long John gli chiese di andargli a comprare un’aranciata da un venditore ambulante che tutti chiamavano Baffo. Oddi giocava in serie D, al Sora. Chinaglia era il centravanti dell’Internapoli, allenato da Luis Vinicio. Nel 1969 si sarebbero riabbracciati negli uffici della Lazio in via Col di Lana. Una volta, in un albergo di Foggia, il sabato notte, con la complicità di Petrelli e Polentes, aveva fatto uno scherzo a Chinaglia, appendendo a una porta con i chiodi le scarpe pitonate che Giorgio aveva comprato in una boutique. Andavano spesso a mangiare a casa di Maestrelli, al Fleming. Il difensore aveva continuato a vivere al Tufello. Il centravanti aveva comprato con la moglie Connie un appartamento in via Gregorio VII. La festa dell’Olimpico dimostra che Long John aveva ragione: il tempo cancella ciò che non conta, ma conserva quello che nessuna epoca potrà portarsi via. Come la Lazio di Maestrelli.


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