Ibrahimovic, l'egolandia

Leggi il commento sulle parole di Zlatan alla vigilia della sfida di Champions con il Feyenoord
Massimiliano Gallo
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Domandate a qualsiasi appassionato di tennis: era più forte McEnroe o Cahill? Vi guarderanno sdegnati. Nemmeno vi risponderanno. Sarebbe come fare la stessa domanda per Zidane e Stroppa. Ma una cosa è giocare e un’altra è la vita dopo la fine dell’attività agonistica. Cahill oggi è un grandissimo allenatore, forse il migliore. Uno dei pochissimi in grado di migliorare l’eccellenza. Come con Sinner. McEnroe no. Non lo ha quasi mai fatto. Per fortuna, aggiungiamo. Si può essere un genio in uno e in un solo campo. Altrimenti si fa la fine di Icaro. 
Vale anche per Zlatan Ibrahimovic. Calciatore strepitoso. Personaggio debordante e dai confini sconosciuti. Amadeus lo comprese e lo infilò in quei suoi Festival meno ordinatucci e rassicuranti. Zlatan ci stava benissimo. Sul palco. E sul campo da calcio. Meno, molto meno, dietro una scrivania. In giacca e cravatta. Nei panni del dirigente. Del demiurgo di una squadra di calcio. Lì servono altre qualità. Devi sapere quando farti concavo. E se hai un ego extralarge, è davvero dura. Devi saper ascoltare altre voci che non siano la tua. Devi saper annusare. Osservare. Capire quando parlare e quando stare in silenzio. Devi anche sapere quando è il momento di prenderti tutte le vagonate di fango e farlo per il bene della tua comunità. Impossibile per chi ha costruito il suo personaggio sul paragone con il divino. Zlatan è la versione contemporanea di Fonzie l’uomo che non sapeva chiedere scusa. In poche parole, è un altro mestiere. Chiedete a Napoli se qualcuno avrebbe voluto Maradona allenatore o direttore sportivo. Se le risposte fossero sincere, vincerebbe il no con il 90 per cento. 
Non è un caso che oggi il Milan di Ibrahimovic sia al primo dentro fuori della stagione. Rischia di uscire dalla Champions dopo due campagne acquisti. Una in estate. E l’altra a gennaio, per smantellare la prima. Il Milan è passato in due giorni da un allenatore che aveva una concezione sacrale della primazia del gioco (Fonseca) a uno dei rarissimi esempi di tecnici allegriani sulla faccia della terra (Conceiçao). Con un unico filo conduttore: l’ingestibilità dello spogliatoio. Evidentemente la lacuna è societaria. Mancano quei principi fondamentali per costruire gruppi che funzionano: rispetto delle regole e senso d’appartenenza. Il Milan di Berlusconi e Galliani era ricco certo. Ma aveva soprattutto senso d’appartenenza. Chi faceva parte di quella comunità, sentiva il Milan come casa propria. Chi finiva lì con un altro spirito e altre idee, era destinato ad andare via rapidamente.  
Il Milan di oggi ha i giocatori. È innegabile. È probabilmente la seconda rosa più forte del campionato, soprattutto dopo il mercato di gennaio. Chi ha in Italia Leao, Theo, Maignan, Reijnders, Gimenez, Joao Felix? Eppure è al bivio Champions, è settimo in campionato (sia pure con una partita in meno). Ed emana costantemente una sensazione di precarietà. Eppure basterebbe chiudere gli occhi e immaginare Marotta al Milan. Tutto apparirebbe immediatamente diverso. Il presente e il futuro. Pensandoci, anche il passato. Marotta non avrebbe mai detto: «Conte non rientra nei nostri parametri».  

 

 


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