ROMA - «Ci sono sogni simbolici - sogni che simboleggiano una realtà. Poi ci sono realtà simboliche - realtà che simboleggiano un sogno». A scriverlo è il giapponese Haruki Murakami, autore culto di questo inizio millennio, che forse non pensava al Napoli ma sembra - senza farlo apposta - riferirsi a quello che sta accadendo all’ombra del Vesuvio. Già, perché la squadra di Maurizio Sarri è ormai una realtà ma non ha smesso di simboleggiare un sogno. Il sogno di riprendersi finalmente lo scudetto dopo il secondo e ultimo griffato Diego Armando Maradona, datato 1990. Sono passati 28 anni, un’eternità nel calcio e ancora di più in una città che di pallone vive e si innamora. Un digiuno lunghissimo, che ha una spiegazione semplice: un altro ‘Pibe de Oro’ non è più comparso sul pianeta Terra e nel calcio di oggi è impensabile strappare al Barcellona il numero 10 che più si avvicina all’originale, Lionel Messi, come riuscì invece a fare Ferlaino nel 1984 con Maradona.
DA DIEGO AL GOL GLOBALE - Undici tocchi, come il numero dei componenti di una squadra che in quell’occasione si limitò ad ammirare da una posizione privilegiata e con gli occhi sgranati lui, il più forte di sempre, scrivere la storia. Una filosofia praticamente opposta aquella di Sarri che - ancor di più dopo la partenza di Gonzalo Higuain - fa invece del collettivo la sua forza. Una specie di orchestra il Napoli di oggi, dove non c’è più un Maradona capace di stracciare gli schemi e fare tutto da solo, ma dove tutti gli undici in campo sono funzionali a un’idea. Questo è accaduto nel 5-0 di Cagliari in occasione del terzo gol, arrivato al 61’ dopo che ognuno degli azzurri - Reina compreso - ha toccato il pallone nell’azione che ha portato alla rete. Una sequenza interminabile, un "gol globale" di cui tutto il mondo parla e che tutto il mondo celebra: Callejon, Hysaj, Hamsik, Insigne, Albiol, Allan, Mario Rui, Reina, Koulibaly, Mertens, di nuovo Hamsik e Insigne e infine ancora Hamsik.