Napoli, cosa succede in città? La squadra è prima, ma lo stadio è semivuoto

I tifosi non acquistano il biglietto, qualcosa non torna. E i soliti alibi francamente non reggono più
Napoli, cosa succede in città? La squadra è prima, ma lo stadio è semivuoto© ANSA
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Tagsnapoli

Che succede a Napoli? Niente, a Napoli non succede niente. E non è obbligatoriamente un male. Anzi. Forse, a pensarci bene, qualcosa sta succedendo: il luogo comune non regge più. Napoli è una scenografia fissa: assieme a quello che un tempo fu il pino di Posillipo, c’è quest’immagine favolistica della città perennemente allegra, delle persone che mangiano tutti insieme nei condomini (senza posate ovviamente, con le mani), di una intera popolazione che si ciba di sole, di mare, di fantasia. E di pallone. Immagine folcloristica che viene alimentata da molti napoletani. Anche noti. 

Lo stadio è semivuoto

Poi, succede che il Napoli vince nove partite su dieci in campionato (otto di fila) e il suo stadio - che oggi porta il nome di Maradona - continua a essere semivuoto. Come ci si aspetterebbe a Udine o a Pordenone. E lo stadio è semivuoto non per le restrizioni del Covid. Lo è proprio perché i napoletani non acquistano il biglietto. Qualcosa non torna. Ci si interroga. Ci si strugge. L’alibi dello stadio fatiscente non torna più buono: è stato riammodernato per le Universiadi. Così come quello dei gabinetti non funzionanti: pare che i napoletani avessero problemi straordinari di vescica. Ora i bagni sono splendidi splendenti. Sì, non ci sono i parcheggi. Ma a Napoli non ci sono mai stati. Non ci sono i trasporti pubblici, vero. Ma anche in questo la città non ha quasi mai brillato. 

E non regge nemmeno l’atto di accusa principe che ha tenuto banco per oltre un decennio a Napoli: il pappone non ha cacciato i soldi per fare la squadra. Il pappone, ovviamente, è Aurelio De Laurentiis l’artefice del gioiello Napoli, l’uomo che ha riportato calcisticamente la città in prima pagina laddove mancava dai tempi di Lui. In un corto circuito cognitivo, il presidente è da sempre additato come il nemico numero uno della squadra e della città. Perché, al fondo, non si è mai piegato alla nuova egemonia: la napoletanità. E, si badi bene, a chiamarlo pappone non è solo il popolo. Tutti lo chiamano così: primari, magistrati, notai, professori universitari. Tutti. Lo considerano un estraneo. E il principale responsabile del disamore. Lui che anni fa annunciò la realizzazione di uno stadio da 30mila spettatori. Scoppiò l’inferno, stava oltraggiando il grande cuore della città. 

Ecco che cosa è successo da Maradona a oggi. Maradona sbarcò in una Napoli contraddittoria, dove realmente convivevano più anime. Dove gli elementi di spicco della cultura - che fossero Massimo Troisi, Pino Daniele, Domenico Rea, il “romano” Raffaele La Capria, Eduardo morì pochi mesi dopo l’arrivo di Diego - erano argini a quella che oggi viene definita (impropriamente) napoletanità. Ne erano portatori sani, non schiavi. Erano anime critiche. Facevano da contrappeso. Maradona fu possibile perché Napoli era anche una città ricca e politicamente dominante. C’era il Banco di Napoli e c’era il pentapartito. Maradona, ricordiamolo, veniva pagato in dollari.

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