Spalletti e il diritto di sbagliare

Nonostante infortuni e assenze, il Napoli battaglia ancora per il titolo. Il rilancio del gruppo e il ritorno in Champions hanno un grande valore
Spalletti e il diritto di sbagliare© FOTO MOSCA
Alessandro Barbano
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Sessantasette Spalletti, sessantasei Gattuso. A cinque turni dal termine un solo punto divide la stagione del tecnico toscano da quella del calabrese che l’ha preceduto sulla panchina azzurra. Ma sono davvero due esperienze sovrapponibili? Chi dice che l’unica misura che conta è quella della classifica, cristallizza il calcio in una fotografia senza prospettiva. Perché la classifica parla per il presente, ma il destino di un club riguarda anche il suo futuro. Gattuso ha lasciato un Napoli fuori dalla Champions, arroccato in trincea per tattica e per spirito, depresso e deprezzato, dove la maggior parte degli acquisti sembravano errori di mercato. Una squadra da cui in troppi si era tentati di scappare. Spalletti traghetta un gruppo che per lunghi tratti ha espresso il più bel gioco del campionato. E diciamo gruppo perché è nozione più ampia di squadra, in quanto il tecnico toscano ha dato protagonismo ad almeno venti atleti, valorizzando talenti come Elmas, Zanoli e Ounas, rilanciando giocatori che sembravano irrecuperabili, come Lobotka e Juan Jesus, reimpostando uomini costantemente in cerca di un ruolo definito, come Fabian e Zielinski, gestendo con il minor danno possibile il divorzio con il personaggio più rappresentativo e più importante, Lorenzo Insigne, che quest’anno ha fin qui segnato nove gol, comunque dieci in meno dell’intera scorsa stagione.
Il tecnico ha ricostruito le geometrie sarriane, congeniali alle attitudini di una squadra votata all’attacco, ma reinterpretandole con maggiore elasticità. Ha accentuato il possesso palla e, allo stesso tempo, la velocità del palleggio, introducendo alcune varianti tattiche tratte dalla tradizione del gioco all’italiana. Ha applicato con successo originali schemi da palla inattiva, che hanno più volte colto di sorpresa gli avversari. Il risultato è stato una squadra capace di esprimere, in un campionato mediamente modesto, una qualità senza eguali, anche rispetto alle due milanesi che le stanno davanti. E anche a dispetto degli infortuni e delle assenze, che hanno segnato la stagione azzurra.
Spalletti è caduto sull’ultimo miglio. Come già Gattuso, Ancelotti e Sarri. Perché non è riuscito a consolidare la fiducia nei propri mezzi e il carattere che fanno oggi la cifra professionale del calcio europeo. Non a caso il Napoli crolla nelle Coppe contro squadre di caratura tecnica incommensurabilmente inferiore e in campionato subisce la personalità di squadre più mature, come Inter e Juventus, o semplicemente più audaci, come la Fiorentina.

Ma questa fragilità, che spesso tracima in un’inaccettabile arrendevolezza, è colpa di Spalletti? Ed era colpa di Gattuso, di Ancelotti e di Sarri, e forse anche di Benitez? Il quesito aleggia sull’intero decennio azzurro, che si apre con l’arrivo di Lorenzo Insigne e che sta per chiudersi con la sua partenza in Canada. Perché in questo lasso di tempo, sia pure con giocatori che si avvicendavano, il Napoli ha avuto una sola identità, mostrandosi allo stesso tempo tanto potenzialmente sublime quanto costantemente incompiuto.
Di questa incompiutezza è la stessa società che deve farsi carico. Interrogandosi se in questi anni ha concorso a guarirla o piuttosto a cronicizzarla. Prendete ad esempio le parole di Spalletti ieri, prima di una gara con l’Empoli che, con una buona dose di ottimismo, può ancora defi nirsi l’ultima spiaggia per restare in corsa scudetto. Ai giornalisti che gli riportavano le critiche di De Laurentiis per i cambi di Napoli-Roma, il tecnico ha risposto contrariato: «Probabilmente è abituato così». Aggiungendo: «Ma è così facile con il senno di poi».
Che il presidente avesse ragione è fuor di dubbio. Le sostituzioni di Osimhen, Lozano e Insigne, quando il Napoli era ancora in vantaggio per uno a zero contro i giallorossi di Mou, si sono rivelate un errore tattico, che noi stessi abbiamo censurato. Ma è giusto che il presidente renda pubblico il suo giudizio? Se c’è qualcosa che deresponsabilizza un ambiente professionale e indebolisce l’intera filiera gerarchica, è la confusione di ruoli e competenze. Lo ha ricordato il presidente del CONI, Giovanni Malagò, in un’intervista al nostro giornale nei giorni scorsi: il successo sportivo - ha detto - pretende una gestione manageriale, la crisi del calcio è figlia della sua cultura padronale. Tradotto al nostro caso, vuol dire: lasciare Spalletti libero di sbagliare e costruire attorno a lui e al management le basi di una fiducia che fa crescere la responsabilità. Provarci per credere.


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