Simeone nel nome di Maradona

Una storia scritta nel destino: giocare nel tempio di Diego, grande amico del Cholo, suo padre
Simeone nel nome di Maradona© Getty Images
Antonio Giordano
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NAPOLI - Fu così che un giorno, parlando con se stesso, Giovanni Pablo Simeone Baldini, parlando con se stesso, ripetè ad alta voce: «Io sentivo di dover venir qui. C’era qualcosa dentro di me che mi diceva che il mio posto era Napoli». Dev’essere stato il richiamo dell’anima, l’effetto calamita che fa di Napoli qualcosa che somigli a Baires e fa di Baires una città che ricordi Napoli: oppure niente di tutto questo, banalmente, si fa per dire, dev’essere stato in “nome di Diego”, di tutto ciò che rappresenta quel dio laico che qui ha vissuto per sette anni, esaltanti e (forse) irripetibili. «Era una voce dentro di me. E ora ho capito: qui c’è una atmosfera speciale». Quando Giovanni Simeone ha svelato a La Nacion cosa l’abbia spinto ad una scelta estrema e persino pericolosa, perché stavolta si è rimesso in gioco, la sua Napoli restava ancora addobbata alle emozioni: poi è venuto fuori il calcio, il suo, ed ora che nell’immaginario collettivo ci sono tante immagini che appartengono esclusivamente al cholito, la storia va prendendo forma magicamente. 

Speedy Gonzales

L’uomo - o il bomber, che poi sarebbe la stessa cosa - va di fretta e Cremona, ma chi l’avrebbe detto, è stato l’appuntamento al quale s’è presentato con minor solerzia: con il Liverpool gli bastarono 3', cosa sono centottanta secondi nella vita di un attaccante?, prima di scoprire che stava piangendo, disteso sull’erba, travolto dai compagni, per averla fatta grossa, gol in Champions. A San Siro, la Scala, gli servì una dozzina di minuti, per andare a girare di testa, come solo i centravanti sanno fare, e chiuderla lì. Alla Cruijff Arena, un altro tempio, 17' e poi, eccolo là, sono il cholito, il figlio di Diego (Simeone); e infine lo Zini, Cremona, quando è uscito dalla nebbia di una partita sporca, l’ha illuminata andando a saltare tra le nuvole, spuntando dal nulla e tra giganti, al diciannovesimo della sua personalissima partita.

Prendimi

Giovanni Simeone era nella lista di Cristiano Giuntoli da un bel po’, gennaio scorso, e a febbraio sono cominciate le perlustrazioni: ma a giugno, dopo averne parlato, il rischio che saltasse tutto è diventato un’ombra dalla quale staccarsi. «La trattativa ad un certo punto si è bloccata, eppure non mi sono mai mosso di un centimetro dal mio desiderio. Non mi sono mai sentito come qui a Napoli». Due milioni e mezzo per il prestito oneroso, poi si vedrà se con i suoi gol il Napoli arriverà in Champions e quindi scatterà l’obbligo di versarne altri 12,5 per riscattarlo: intanto, così recita il curriculum vitae stagionale, in 277' - che sono complessivamente tre partite messe assieme unendo vari spezzoni - ne ha fatti quattro, quasi mai banali, pieni di “garra” e di personalità, anche di tecnica, come quel “capolavoro” che ha aperto il campo a Kvara e a Lozano per il 3-1. 

Firenze

Questa è la sua settima stagione italiana e in quattro delle sei precedenti, bisognerebbe ricordarsi di certi numeri, è andato per quattro volte in doppia cifra: ne ha fatti subito quattordici al Genoa, e poi si è ripetuto alla Fiorentina, ne ha regalati dodici in un campionato al Cagliari e poi diciassette al Verona, lottando dal basso, per arrivare lassù, in alto, primo in Serie A ed anche in Champions, novantuno reti in questo Paese che ora gli ha spalancato anche l’orizzonte del “centenario”. Simeone lo sa, e bene, che Napoli per un po’ l’ha visto come il fumo negli occhi, perché forse è vero che lo scudetto del 29 aprile 2018 quella squadra lo perse in albergo, ma anche il Cholito ci mise qualcosa di suo: tre reti, e tutte in una volta, nel pomeriggio della disillusione e del dolore altrui, una cicatrice che resta ancora impressa nella testa di una città che ormai gli appartiene. Per farsi “perdonare”, non c’è altro da fare che restare se stesso: oggi come ieri e anche domani.


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