Spalletti e Allegri, benedetti toscani

Venerdì al Maradona la sfida più affascinante sulla strada per lo scudetto, gli allenatori scaldano l’ambiente: l’esuberanza del tecnico azzurro contro l’aplomb del bianconero
Spalletti e Allegri, benedetti toscani
Antonio Giordano
6 min

NAPOLI - La sera in cui il cronometro e il destino si misero di traverso, non avendo un cappotto da togliersi da dosso e dovendo in qualche modo imprecare alla luna, Massimiliano Allegri strappò l’uso convenzionale delle parole e scatenò un putiferio che neanche il Vernacoliere. «Ogni tanto da toscani, con Luciano, bisticciamo. Ma non è successo assolutamente nulla». Però la notte in cui Spalletti sistemò un po’ i conti calcistici con Max e lo fece al minuto 85', dunque di corto muso, dinnanzi alle telecamere si scoprì che nello spogliatoio, dopo Napoli-Juventus dell’11 settembre del 2021, erano appena trascorsi un paio di torridi minuti. «Ho sempre perso con lui e la prima volta che l’ho battuto lui viene a farmi la morale». Al di là delle frasi fatte, nel manierismo di facciata, di quella vena d’ipocrisia che abbonda ovunque, pure nel calcio, e che comunque non appartiene a nessuno dei due, Allegri e Spalletti si stimano, ma parecchio, fondamentalmente si piacciono nelle loro diversità e sinteticamente si apprezzano professionalmente e umanamente, e non semplicemente perché gli opposti si attraggono.

I primi della classe

Allegri e Spalletti sono allergici alle banalità, rifuggono dalla plastica ruffianeria, preferiscono semplicemente assecondare se stessi - piaccia o no - ed evitano frontalmente anche la diplomazia: ma entrambi pensano esattamente l’uno dell’altro la stessa cosa e lo raccontano all’aperto o anche al chiuso, senza lasciarsi far velo da una simpatia di fondo che sta a pelle e che l’incidente di sedici mesi fa non ha alterato. Allegri per Spalletti è «il primo della classe» e Spalletti per Allegri «è il più bravo», pure se si sono rotte le comunicazioni, per una baruffa che prima o poi sapranno rimuovere a “Bordo campo” dinnanzi a un “Contrasto”, alzando i calici con dentro i vini de “La Rimessa” che l’attuale padrone del campionato userebbe pure per brindare ad altro, un giorno.

La tensione

Ma ora che il gioco si sta rifacendo duro, è chiaro che l’uno e l’altro si metteranno a definire le rispettive strategie d’una tensione che annuncia sei mesi per uomini forti, abituati a sfuggire alle fiamme di inferni (anche mediatici) domati con gli idranti della dialettica, piogge torrenziali di discorsi capaci di spegnere gl’incendi. Allegri è abituato a guardare il suo macrocosmo dall’alto in basso, l’ha governato vincendo in lungo e in largo con un aplomb britannico-livornese, è entrato con disinvoltura nei ristoranti da cento euro avendone dieci in tasca ed ha avviato un ciclo (quasi) senza precedenti: poi, quando ha cominciato a buttar via il paltò, riguardandosi negli highlight, con una risata ha seppellito quelle immagini, che ha accantonato sino alla successiva «intemperanza». Spalletti, dopo essere divenuto Zar in Russia, ha scoperto le inquietudini più stressanti nelle capitali politiche ed economiche d’un Paese che ha sempre bisogno di eroi (e però anche di martiri) e le ha affrontate da solo, senza protezioni né paracadute, lasciando in eredità alla Roma e all’Inter le qualificazioni in Champions e una scia di danaro cash per fronteggiare le difficoltà. La sua Napoli, prima che diventasse d’abbagliante bellezza, ha avuto bisogno di una diplomazia che ne ha fatto un «altro uomo», privo di spigoli, e quando s’è chiuso il ciclo degli Insigne, dei Mertens, dei Koulibaly, dall’altare d’un calcio trasgressivo, quasi hard, ha dispensato allegria.

Eccoli

Allegri ha trasformato se stesso in un self-made man, ha ampliato le proprie conoscenze, ha smesso di essere semplicemente allenatore ma s’è caricato addosso le responsabilità di un club come la Juventus, ha assorbito gli effetti devastanti di questo tempo e li ha adagiati su un otto volante nel quale c’è il buon senso di chi, essendo nato a Livorno, sa annusare l’aria e pure il maestrale. «Stiamo facendo un bel percorso, però bisogna alzare il livello delle prestazioni». Spalletti ha avuto il coraggio di affrontare le turbolenze più insospettabili del Napoli dell’era De Laurentiis, ereditato fuori dalla Champions e con l’unico obiettivo di «vendere in presenza di offerte vantaggiose e tagliare il monte-ingaggi» e poi lo ha plasmato a propria immagine e somiglianza, riempiendolo delle sue visioni da artista dei sogni che a Marassi ha preso la tensione e l’ha maciullata a muso duro. «Noi l’ansia non l’avvertiamo, semmai la faremo venire agli altri».

Rischiatutto?

Ma venerdì si entra in una dimensione nuova: c’è, in quei novanta minuti, una mezza verità, lo sa Spalletti e ne è consapevole Allegri, perché quel divario di sette punti tra il Napoli e la Juventus può trasformarsi in abisso o anche in dettaglio, può scatenare deliri o alimentare psicodrammi, può ribaltare gerarchie che parevano scolpite nel marmo o può rimettere in discussione il vissuto e pure l’orizzonte. C’è un sottile filo che lega i destini di Spalletti e Allegri, è probabilmente racchiuso in questo braccio di ferro a petto in fuori che fa di Napoli-Juve la madre di tutte le partite, e non è ancora scritto nelle stelle chi stavolta rischi di più: e quando la storia ti passa al fianco, pure un alito di vento può riscrivere il destino. Benedetti toscani! 


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