Napoli, c'è qualcosa di nuovo oggi in città

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Napoli, c'è qualcosa di nuovo oggi in città© ANSA
Alessandro Barbano
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I fuochi d’artificio dello scudetto azzurro brillano su cinque continenti perché la napoletanità è da sempre, di tutte le forme della cultura italiana, la più dotata di proiezione internazionale. In tempi in cui l’identità coincide con la cittadinanza, il napoletano non è più una lingua che racconti un popolo, ma resta la forma espressiva più autentica dell’italianità cosmopolita. Voglio dire che l’Italia parla al mondo con la voce di Napoli e, in questi giorni, con i gol di Osimhen, napoletano doc.

Ma che cosa racconta questo scudetto? In un certo senso uno strappo rispetto alla crisi cronica della città e al suo mito noir. Il successo dei ragazzi di Spalletti è un punto di discontinuità con la recente storia di Napoli e con la sua attuale marginalità nel Paese. Perché è un’impresa del fare, visionaria e razionale insieme, frutto di investimento, sacrificio e organizzazione. È un traguardo in un certo senso antinapoletano, così come lo furono il primo e il secondo tricolore. Ma in un modo diverso. Maradona riscattava la subalternità di Napoli assediata dalla camorra e funestata dal terremoto, tradita dall’esito fallimentare dell’interventismo pubblico e dalla crisi della prima repubblica, che era anche eclissi della classe dirigente meridionale. Osimhen e Kvara non hanno nulla da riscattare, poiché Napoli oggi non è una periferia della nazione, ma piuttosto un’isola che vive di tempi e attese non più in connessione con il resto del Paese.

Nelle forme dell’arte popolare e della comunicazione Napoli ricorre come eterna replicazione di una rivoluzione fallita che diventa mitologia del negativo, per usare una felice metafora di Raffaele La Capria. Gran parte di ciò che la napoletanità porta al successo negli ultimi anni è immagine sovraesposta degli eccessi e dei difetti di un’identità eletta a simbolo. Pino Daniele è stata l’ultima sorgente di creatività vitale della città. Tutti i processi culturali di successo che sono seguiti hanno, per così dire, una cifra parassitaria. Si nutrono dell’immagine rovesciata e amplificata della crisi, e la mostrano come un feticcio. Napoli è il teatro dove si recita ogni giorno in forme diverse il declino, la frattura, il conflitto e l’agonia di ogni sistema di comunità. Di questa pièce lo scudetto azzurro è una sorprendente smentita.

Anzitutto perché è manifattura, nel senso traslato del costruire con le mani qualcosa che, mattone dopo mattone, finisce per sormontare le stesse ambizioni di chi si è adoperato nell’impresa. Il Napoli che vince è la squadra più forte del campionato, capace di fare il vuoto attorno a sé, ma soprattutto di fare tesoro delle sue fragilità e delle sue cadute. È frutto di una scommessa personale, ma anche di visione e intuizione, a cui si deve una campagna acquisti capace dei migliori affari. E ancora di razionalità scientifica e coraggio, con cui si disegna e poi si consolida un modulo tattico originale che valorizza ed esalta le qualità dei singoli. E, da ultimo, di empatia e amicizia, che la squadra mutua dall’anima bonaria della città e che diventa in campo una sinergia. La goleada di Osimhen e Kvara è altruista. I due gioielli azzurri non si ringraziano per gli assist che vicendevolmente si scambiano, ma si consolano reciprocamente nelle occasioni in cui peccano di egoismo. Questo spirito di gruppo non si proclama e non s’inventa, si fa, piuttosto, unendo la malta del cuore con l’acqua del luogo. La mano di Spalletti si è rivelata una mescola straordinaria.

Questo scudetto non è appeso al gancio di un campione leggendario e insieme periclitante come Maradona. È più solido e più fragile, però ha in potenza l’energia di un ciclo. Può trasformare la sconfitta di Champions con il Milan nel quid di esperienza che serve per alzare l’asticella delle ambizioni e puntare a un’egemonia europea. Certo, tutto può rompersi e sfarinarsi nel maestrale che da queste parti, quando arriva la tempesta, può abbattere un muro. Per questo la manutenzione dello scudetto chiama a una responsabilità ancora maggiore i suoi artefici, e cioè la società, la squadra, il tecnico, i tifosi e tutta la città. Il miglior modo per assolverla è non pensarla come una rivincita, meno che mai come un risarcimento. Ma piuttosto come un inizio di qualcosa di assolutamente inedito nel passato prossimo di Napoli. Da cui possono sbocciare altre sorprese.


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