Napoli, lo scudetto sta tornando a casa

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Napoli, lo scudetto sta tornando a casa© ANSA
Alessandro Barbano
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Non sono le bandiere il simbolo del “fatto” che, tra il Vesuvio e Nisida, estremi geografici e simbolici della metropoli calcistica, nessuno pronuncia col suo vero nome. Sono piuttosto le lunghe strisce di plastica, agganciate ai balconi, alle cancellate e ai pali elettrici, che vestono i tetti e le facciate dei palazzi. Vanno di casa in casa, da San Domenico Maggiore a piazza Trieste e Trento, attraverso via Chiaia e l’omonima Riviera guadano il golfo da parte a parte, risalendo sino a Fuorigrotta. Fili di comunità che, collegando un capitello barocco con una finestra popolare, raccontano la variegata geografia sociale della città, come una circolazione extracorporea su cui transita l’attesa di Napoli-Salernitana e, prima ancora, di Inter-Lazio. La brezza di libeccio flette e fa vibrare l’azzurro e il bianco di questi sfilacci di lenzuola, mostrando nella vivace armonia dei due colori sociali la febbre che corre tra gli animi. «È più di Natale, perché il Natale viene ogni anno, questo “fatto” forse non lo vedremo più» dice il tassista che mi porta da Castelvolturno verso il centro. Basta una vigilia così, da sola, a mostrare che il calcio sta all’anima di Napoli almeno quanto il sole e il mare

Tavola apparecchiata per un Natale laico

Il Natale laico del pallone attraversa le case e i bar, gli uffici e i circoli, le scuole e le aziende, come una pièce teatrale collettiva, il cui copione ruota attorno al mistero di un evento probabile, desiderato, ma impronunciabile. È uno spettacolo a cielo aperto che porta su Napoli gli occhi di duecento tv, centinaia di giornalisti, migliaia di turisti che hanno mandato in tilt la capienza degli alberghi cittadini. Al punto che un letto in una camera da otto posti in un ostello popolare è venduto su Booking alla cifra iperbolica di centosettantotto euro. La grande tavola napoletana è apparecchiata, attorno i commensali di cinque continenti si preparano a banchettare, ma il piatto è servito con il coperchio, sotto il quale ciascuno sogna di pregustare una genovese cotta a fuoco lento, cioè una Salernitana che si consegna disarmata ai padroni del campionato in formazione tipo, con Rrahmani al fianco di Kim, Zielinski rititolarizzato, Lozano e Olivera invece degli infortunati Politano e Mario Rui. Poi, a giochi fatti, l’ingresso di rincalzi a cui Spalletti deve più di qualcosa, come Raspadori, Simeone, Ndombele e Juan Jesus, offrirà la standing ovation del Maradona alle stelle della stagione. Senonché il comico e il tragico aleggiano sul finale dell’evento come una sorpresa che potrebbe scombussolare, con un dispetto dei granata o di Sarri, i piani di molti: su tutti il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, che ha riscritto il calendario del campionato agitando l’allarme dell’ordine pubblico. Ma anche la Federazione e la Lega, che hanno subito il diktat, il sindaco che lo ha assecondato, De Laurentiis che legittimamente insegue l’ipotesi di far coincidere la vittoria con il “fatto”. E da ultimo Spalletti, la cui imperturbabilità è una difesa obbligata, poiché qualunque diversa reazione avrebbe rischiato di alterare l’equilibrio alchemico degli animi nello spogliatoio azzurro.

Spalletti artigiano e scienziato

L’equilibrio per ora sta in piedi, «i ragazzi palleggiano a mille», racconta il tecnico a una platea affollatissima di cronisti, assiepati sulla tribunetta della sala stampa di Castelvolturno. C’è nel dire e non dire di questo visionario toscano una strategia di dissimulazione delle emozioni, che sarebbe un errore considerare una scaramanzia. A dispetto del lessico anarchico e della sintassi zoppicante, Spalletti è uno scienziato. E uno scienziato non crede alla maledizione del gatto nero. Quando trattiene il fiato, lo fa perché la parola impronunciabile varrebbe, insieme con l’anticipazione della gioia, anche la fine di quella tensione emotiva e nervosa che lui condivide con la squadra. E che merita una protezione sacrale. Ma è reticente anche perché tratta con i giornalisti come il medico con i pazienti, a cui si spiega il dovuto, ma niente di più del dovuto. È un retaggio artigianale che convive con l’anima razionale e scientifica dell’uomo, quella che sottopone le sue creative intuizioni alla verifica dei match analist. E lo esorta, stavolta violando la sua reticenza, a difendere il pressing aggressivo sulla tre-quarti avversaria che gli è costato tre capitomboli con il Milan, ma anche il successo di Torino. «Chi critica le mie scelte - dice - guarda al contropiede di Leao, ma non a tutte le altre volte in cui abbiamo rubato palla noi e siamo andati in gol». Chi potrebbe dargli torto dopo una cavalcata di venticinque vittorie, tre pareggi e tre sole sconfitte, sessantasette gol fatti e solo ventuno presi? Nel suo essere l’ultimo degli artigiani e il primo degli scienziati, il tecnico azzurro incarna il meglio del vecchio e del nuovo del calcio. E simboleggia nel modo più efficace questa epifania del Napoli, che è, come abbiamo già avuto modo di dire, manifattura, cioè impresa del fare. Il “fatto” tanto atteso sarebbe, con perfetta aderenza logica, il participio passato del fare, cioè il prodotto di un’organizzazione produttiva capace di far interagire genio, ragione e altruismo. Vuol dire che il successo del Napoli è anzitutto sinergia. Spalletti lo spiega con parole sue, quando dice che «la qualità della squadra non coincide con la somma algebrica delle qualità individuali dei calciatori». Perché c’è un moltiplicatore di fiducia e di empatia che, dal chiuso dello spogliatoio, si è disperso nell’aria della città, come una nebbiolina scintillante trasportata dal vento. Per vederla, basta guardare Napoli dall’alto nella notte della vigilia: dalla collina di Posillipo al Molosiglio è un presepe illuminato. Ogni luce stanotte è una speranza stupenda.


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