Comm'è bella 'a muntagna stanotte

Leggi il commento del condirettore del Corriere dello Sport-Stadio sullo scudetto del Napoli
Alessandro Barbano
7 min
Tagsnapoli

Ivan Zazzaroni lo scudetto del Napoli evoca – lo ha scritto ieri - l’incipit di «Torna a Surriento»: «Vide ‘o mare quant’è bello...». A me quello di «Tu ca nun chiagne», che fa: «Comm’è bella ‘a muntagna stanotte, bella accussì, nun ll’aggio vista maje». Lui è bolognese, ma frequenta Napoli da anni, io leccese, ma Napoli è la città che, in un certo senso, mi ha adottato e dove vorrei morire. A entrambi il trionfo azzurro suggerisce una canzone densa di nostalgia, intesa come mancanza, perché la gioia da queste parti, anche quando trabocca dal cuore, si volge all’indietro verso il dolore che la precede.

Per sei anni ho vegliato su Napoli di notte da una veranda al settimo piano di via Partenope, da cui l’intera geografia urbana, dalla collina di Posillipo fino al Vesuvio, si squadernava ai miei occhi come un presepe illuminato, con il faro di Capri che baluginava in mezzo al nero del golfo. Da questo angolo privilegiato di osservazione, ho visto Napoli piangere tra le fiamme di Città della Scienza e sognare nell’illusione del Lungomare liberato, brillare di genio con l’originalità della sua arte e incupirsi nel racconto noir del gomorrismo, aprirsi alle contaminazioni cosmopolite e arroccarsi nella sua guerriglia identitaria. A furia di osservarla ho perduto il distacco del testimone di fronte alla realtà, immedesimandomi al punto da sentirmi parte di quella irripetibile ambivalenza che Napoli è. Apprendo ora la notizia dello scudetto mentre sono a mille chilometri più a Nord, ma col pensiero torno a quella veranda, da cui stanotte rivivo tutto intero il pieno e il vuoto della vittoria, la sua dolcezza ubriacante e il suo retrogusto amaro, propri delle cose studiate oltre la ragione, maturate oltre la coscienza, e anelate oltre il desiderio.

Lo scudetto è un’emozione coltivata per un tempo così lungo, percepita tante volte come una chance e sfumata altrettante volte come un miraggio, da apparire inedita. Quasi la metà dei napoletani, coloro che hanno meno di quarant’anni e non hanno mai visto giocare Diego, non ricordano le due vittorie dell’Ottantasette e del Novanta. Gli altri, i più avanti con l’età, si sono abituati a considerarle un attributo del passaggio del Pibe sul San Paolo, ribattezzato non a caso «Maradona». Per tutte queste ragioni la gioia che lo scudetto scatena è più intesa e meno spiegabile. Non ha a che fare solo con lo statuto di perdente della città, con la sua voglia di riscatto, con l’idea di un risarcimento che accompagna una certa retorica meridionale. Tutto questo è ancora parte del tutto, ma non è il tutto. C’è qualcosa in più che segna una cesura con il passato, e riguarda allo stesso modo la squadra e Napoli.

Sul campo lo scudetto nasce da un reset sportivo. Vuol dire anzitutto la dismissione di una leadership, quella di Lorenzo Insigne, che pure aveva caratterizzato un decennio, ma anche il ricambio di pedine importanti come Koulibaly e Fabian, e la scommessa su atleti in gran parte nuovi, portati a Napoli con una logica manageriale che implica visione, intuizione, organizzazione e, soprattutto, ricomposizione di un gruppo coeso e solidale. L’ho già definita in questi giorni una manifattura, che mescola sapientemente, come le migliori imprese moderne del fare, scienza e artigianato. Dove la scienza sta nel sapere, e l’artigianato nel coraggio, cioè nella capacità di imprimere alla fisiologia di un processo un quid personale, che può portare a un approdo inusitato.

La scienza e l’artigianato stanno allo stesso modo nei due principali protagonisti di questo successo, Aurelio De Laurentiis e Luciano Spalletti. Il primo intuisce che la vecchia squadra costruita per puntare al traguardo non è adeguata e si assume la responsabilità di dismetterla. Dismette la squadra, ma soprattutto la matrice identitaria su cui si fonda, cioè l’idea che il successo raggiunto da Maradona possa ripetersi attraverso protagonisti che, sia pure a un diverso livello, ne emulino il gioco. Insigne è e si pretende una copia, ancorché non fedele, di Diego: non avrà mai la pretesa di indossare la sua «numero 10», ma conquista a suo modo il pubblico napoletano con una tecnica di scuola maradoniana. Lo stesso tiro a giro sembra un lascito generazionale che l’impareggiabile argentino ha consegnato allo scugnizzo di Frattamaggiore. Licenziare Insigne, perché nella sostanza di questo si è trattato, ha voluto dire liberarsi di un’eredità, che è insieme sportiva e simbolica. Maradona, che nel frattempo ha concluso la sua avventura terrena, si è eternato come mito. Ma sul suo santuario laico si fe- steggia oggi uno scudetto che ha archiviato una storia.

Il coraggio di Spalletti sta nell’aver assecondato questa delicatissima transizione, facendo sua la scommessa del presidente, dopo aver visionato il video di un ventunenne georgiano sconosciuto alle cronache sportive. Accettando di sostituire Insigne con Kvaratskhelia, ha adoperato, anche se all’incontrario, la stessa pervicacia che lo indusse anni fa a tenere fuori squadra Francesco Totti contro il parere di tutti. Matteo Renzi, nel suo esordio da direttore sul Riformista, ha svelato il retroscena di una cena da lui organizzata a Palazzo Chigi con il tecnico toscano, su insistenza del suo ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, il quale da sfegatato tifoso romanista perorava la causa di una maglia da titolare all’ormai attempato pupone. Spalletti resistette alle sollecitazioni, non irrilevanti, dell’ambiente capitolino e in un certo senso perse la scommessa di Roma. A Napoli l’ha vinta, usando lo stesso coraggio, non per resistere, ma per rischiare. Convincendosi una volta di più che solo una cosa sopravanza, nella coscienza di un leader, il desiderio di vincere: l’idea di guardarsi allo specchio e riconoscersi.

Anche la città ha perso una scommessa con il Paese, trasformando la sua subalternità e il suo isolamento in una condizione quasi insulare. Ma ha vinto, almeno in parte, la sfida con la modernità, grazie alla sua unica capacità di accogliere e darsi all’ospite, diventando la meta preferita del turismo mondiale. Dalla mia, mai dismessa, veranda virtuale, lo scudetto appare parte di questa sfida: sempre meno indennizzo per i torti subiti, sempre più proiezione verso il futuro. Non lo porta in dote un campione, mezzo uomo e mezzo dio, che s’intesta il riscatto degli ultimi, ma è un’opera collettiva dell’ingegno e del sacrificio. Per questo, forse, arriva per restarci.

 


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