Napoli, sei e sarai sempre la città di Maradona. Come se lui ci fosse ancora

Due milioni e mezzo al murale di Diego, da quella sera in cui ci sentimmo abbandonati
Antonio Giordano
5 min

NAPOLI - Mentre camminano, verso l’altare più pagano e contemporaneamente più religioso, chissà cosa pensano, dove posano lo sguardo, se nel dolore che sembra affliggerli o nella gioia d’esserselo goduto, d’averlo visto, toccato, sfiorato, fosse pure nel racconto dei padri e dei nonni. Tre anni senza Diego, tre anni con Maradona, passeggiando nel cuore di una città che ormai è diventata la sua Patria elettiva, il domicilio di un affetto che s’avverte nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, dinnanzi a quel Murale che ha accolto chiunque, ch’è diventato luogo di culto, di riconoscenza, di gratitudine. E non ha neppure senso domandarsi cosa stesse facendo ognuno di quei fedeli alle 17 del 25 novembre del 2020, come abbia reagito, da quale tipo di ciclone emozionale sia stato travolto: Maradona, scansando la retorica, è il dono di se stesso all’eternità, è un colpo di mano all’angoscia planetaria, perché quelli che scelgono di scivolare nel fiume d’uomini, donne e bambini vogliono semplicemente donare uno sguardo a un’immagine che gli somiglia, rappresentano l’espressione trasversale del calcio, mica atei del football ma credenti in quel solo Dio che s’adagia ovunque. Settantamila persone al mese, sussurrano gli esperti, significano due milioni e mezzo da quella sera: un oceano di sentimenti. 

Maradona, la processione

E la magìa ch’è stata in quei sessant’anni, tutti vissuti spingendosi oltre le barriere delle più spicciole e banali convenzioni, poi s’è propagata ben oltre lo strazio universale: Napoli è una processione lenta e solenne, è una mozione d’affetto sistematica, è un fascio di luce che illumina il ricordo personale delle decine, centinaia, migliaia e poi milioni di veneratori d’un genio per sempre. In questa Napoli, in questa vita senza Diego, in realtà Maradona s’avverte fisicamente, soffoca il criterio di demagogia, piomba in quello stadio suo - adesso ma già prima - che vibra quando irrompe Rodrigo Bueno e funge da colonna sonora di quegli spettatori che sono lì per altro ma anche per cantarselo in un vangelo melodico che riempie l’aria e scava nei tormenti: è un attimo, due note dolci e possenti, l’effetto d’un dribbling - uno, dieci, centoquindici capolavori come i suoi gol o sette anni, come le carezze sparse su Napoli - e poi la sensazione di rinchiudersi in una malinconia gioiosa, come se el pibe non fosse mai sparito. Maradona è stato il più Grande, non lo dicono le statistiche ormai incomparabili ma lo raccontano i cortei che si accavallano, è una sfilata a ritmo incessante in cui Napoli diventa la madre di quell’esistenza grassa ed esageratamente meravigliosa, la rappresentazione anche un po’ teatrale che il Genio ha concesso di sé, nel proprio habitat naturale, e che poi ha offerto come personale eredità. Napoli ha scoperto, ora che da tre anni non c’è più Diego, quanto Maradona fosse amato non solo - non esclusivamente - da quella sua città dannatamente bella e perduta per il suo eroe ma da un pianeta, il calcio - da Mourinho a Galliani - che discretamente, per quanto ovviamente fosse possibile, è andato a poggiare una preghiera o per salutarlo a modo.

Maradona, il bagliore

Maradona è allo stadio, e nelle evocazioni, nelle scadenze fisse, negli incroci del destino che, trentatré anni dopo, hanno consegnato uno scudetto a Napoli immediatamente dopo aver permesso all’Argentina di diventare Campione del Mondo, è nella fantasia di chi non ha mai avuto modo di gustarselo, se non cliccando sul web, o in quella dimensione onirica che illanguidisce proiettandosi verso il Murale e facendosi semmai cullare da Manu Chao: «Sy yo fuera Maradona». Nessun altro può essere Maradona: da tre anni il Mondo lo spiega a Napoli, tenendola per mano, per farle anche un po’ coraggio.


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